Tiberia de Matteis Uno stile inconfondibile che lo rende unico nel suo genere e atteso in tutte le piazze nazionali contraddistingue da sempre Paolo Poli che approda alla Sala Umberto con il suo spettacolo «Sillabari», pronto a recuperare p
L'Italiafra gli anni Quaranta e Sessanta rivive nella sua semplicità pertinente alla concreta realtà storica grazie a un'artista della parola e della fantasia. Cosa racconta in questa sua performance? «Piccoli eventi senza colpi di scena con il fascino di piccole figure umili: personaggini, bimbi, cagnolini, sorci, tutta gente periferica rispetto agli eroi dannunziani e alla magniloquenza del fascismo. Sono delicate note preziose, sottigliezze letterarie, che segnano la volontà di Parise di ripartire linguisticamente dal basso senza tuttavia rinunciare all'altezza poetica. Era rimasto colpito dal quadernetto di una bambina in cui era scritto: "L'erba è verde", intuendo l'importanza dell'immediatezza». Qual è stato il suo rapporto con Parise? «L'ho conosciuto nella metà del Novecento perché abitavo in casa di Laura Betti in quanto cantavamo in coppia alla televisione. Il giorno venivano spesso a pranzo Pasolini e Parise a gustare il risotto della padrona di casa. Parlavano solo Laura Betti e Pasolini, mentre Parise e io mangiavamo. Era una persona molto contegnosa in quegli anni in cui era diffusa la tendenza alla sbracatura. C'erano in lui un certo ritegno e uno sdegnoso riserbo che ha poi tradotto nella scelta di uno stile povero, quasi infantile, ma non inconsapevole. Nell'apparente freschezza dei suoi scritti si nasconde, infatti, una profonda magia». Come è nata la sua vocazione scenica? «Fin da piccolo, guardando il mondo, mi sembravamo tutti travestiti. Noi bambini eravamo tutti soldatini con pistole e carri armati, ora quindi mi sono compensato giocando anche con le bambole!». Ha nostalgia per i tempi passati che spesso ricrea sul palco? «Rimpiango gli incanti della giovinezza e le fantasie dell'adolescenza, stroncate dagli insegnanti, ma mi considero molto fortunato perché ho scelto il mestiere che mi piaceva, riuscendo veramente a vivere come volevo. Oggi gli attori si rifugiano in teatro quando non riescono a lavorare al cinema o alla televisione e non hanno voglia di battere il territorio come a me capita da anni. Non sanno quanto sia assetato di teatro il pubblico dei piccoli centri». Trova più croci o delizie nel suo impegno quotidiano? «Mi costa fatica l'idiozia degli spettatori diseducati dai canali Mediaset e bramosi di sapori forti, grossolani e rozzi, mentre mi gratifica l'applauso che scroscia dopo aver visto facce ingrugnite sciogliersi in risate a dentiera aperta. Mi ricordo che negli anni Sessanta in qualche replica avevo poca gente in platea, mentre ora devono aggiungere gli strapuntini. Una volta c'erano sette persone e dissi loro: "Venite avanti, faremo Biancaneve e i sette nani!". Un'altra volta erano dodici e commentai: "Anche Gesù Cristo aveva solo dodici apostoli!". Oggi funziona il passaparola per riempire i teatri e, soprattutto in provincia, la gente ti attende e ti accoglie. Mi conoscono e mi scelgono, anche se c'è sempre chi capita per caso, chi ha l'abbonamento o chi è venuto grazie a una promozione. Il pubblico è sempre più variegato e disomogeneo». C'è un segreto per mantenersi in forma smagliante e perfetta a dispetto degli anni? «Lavorare molto e mangiare poco. La povertà è più longeva. Certo, a trent'anni rimorchiavo molto di più!». Che augurio si fa per il futuro? «Mi rimbocco le maniche e non aspetto l'aiuto della Madonna. Non spero nell'altra vita e non mi affloscio perché mi mancano i soldi del Ministero. Recito da sempre con i miei spiccioli e non devo mantenere quattro mogli di primo letto o la barca di plastica. Investo i proventi del mio lavoro nel lavoro, grazie a una vita sobria».