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Usa 2024, i "magnifici sette" Stati chiave: ecco dove si decide la sfida Trump-Harris
Al termine dell’assemblea costituzionale di Filadelfia, nel 1787, la leggenda vuole che una donna fermò uno dei "Founding Fathers", Benjamin Franklin, per chiedergli sotto che tipo di governo avrebbe vissuto. La risposta fu «una repubblica, signora, se riuscirà a conservarla». Franklin rispose «una repubblica» perché i Founding Fathers, sebbene credessero nel governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non credevano nella democrazia. A loro avviso, la democrazia conteneva in sé l’impulso al soffocamento delle libertà civili, alla sopraffazione da parte della maggioranza dei diritti delle minoranze. Secondo loro, democrazia non significava necessariamente giustizia.
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Di conseguenza, mentre inserirono nella Costituzione rilevanti elementi democratici, ne inserirono altri di tutt’altra natura per proteggere la libertà e prevenire la tirannia. Scelsero così la forma repubblicana per decentrare ogni potere, com’è più che evidente dalle procedure costituzionali previste per la scelta del presidente degli Stati Uniti.
Oggi come ieri, un voto popolare diretto favorirebbe politiche volte ad avvantaggiare le aree urbane più densamente popolate. Tre Stati, grandi e popolosi, come California, Illinois e New York deciderebbero da soli il risultato. L’Electoral College, il sistema voluto dai "Founding Fathers", incentiva invece politiche volte a conquistare l’appoggio degli elettori degli Stati rurali meno popolosi.
Ogni quattro anni, il primo martedì di novembre, i cittadini degli Stati Uniti in cinquantuno diverse e separate elezioni, eleggono un corpo di 538 Grandi Elettori, uno per ogni membro del Congresso assegnato a ciascun Stato. Il primo lunedì dopo il secondo mercoledì di dicembre, senza un vero vincolo di mandato, i Grandi Elettori sono poi chiamati a riunirsi nelle rispettive capitali per eleggere il presidente. Tale elezione, per divenire effettiva, deve essere ratificata il 6 gennaio dal Congresso. Infine, il processo elettorale si conclude il 20 gennaio con il giuramento del nuovo presidente.
Tuttavia, la tendenza di molti candidati ad accettare la sconfitta e ritirarsi dopo le elezioni del primo martedì di novembre, ha di fatto dato al voto popolare quella grande rilevanza che i "Founding Fathers" volevano evitare.
Posto che in base al reiterarsi dello stesso risultato elettorale sono venti gli Stati che certamente voteranno per il candidato democratico e sono ventiquattro quelli che altrettanto certamente voteranno per il candidato repubblicano, la vicepresidente Kamala Harris può già contare su 226 Grandi Elettori e l’ex presidente Donald Trump su 219. Per conquistarne la maggioranza di 270, le loro campagne elettorali si sono focalizzate su quei sette stati che negli ultimi anni tendono a oscillare tra un partito e l’altro: Nevada, Arizona, Georgia, North Carolina, Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.
Ma il voto registrato a favore dei Democratici in Georgia e North Carolina è un qualcosa di così episodico che molto probabilmente i loro Grandi Elettori andranno a Trump, portandone la candidatura a 251. D’altra parte, la stessa cosa si può dire per Michigan e Wisconsin, tanto che anche la candidatura Harris dovrebbe già attestarsi a 251. Nel caso, Nevada e Arizona diverrebbero irrilevanti, poiché insieme arrivano solo a diciassette, mentre la Pennsylvania, con i suoi diciannove Grandi Elettori, diverrebbe decisiva.
Molte le "Wild Card" che potrebbero alterare questo quadro, sottraendo all’uno, oppure all’altro, aliquote piccole ma importanti di elettori. Due meritano particolare attenzione. La prima favorirebbe Trump, ed è identificabile nell’eventuale rifiuto da parte dell’elettorato democratico del Michigan di origine araba di votare per la vicepresidente di un’amministrazione ritenuta troppo vicina al governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. La seconda favorirebbe Harris, ed è riassumibile nelle difficoltà, soprattutto di natura logistica, che quella parte di elettorato repubblicano che vive nelle contee della North Carolina devastate dall’uragano Helene deve affrontare per esercitare il proprio diritto di voto.
Al momento, nessuno dei due grandi contendenti sembra disposto a riconoscere la sconfitta, cosa questa che se da una parte contribuirà ad elevare ulteriormente il già elevato livello di polarizzazione caratteristico degli ultimi anni, dall’altra riporterà la scelta del presidente a quel lungo e complesso processo a suo tempo voluto dai "Founding Fathers".