elezioni negli usa

Elezioni Usa, l’America scopre il bluff Kamala Harris

Paola Tommasi

È tempo di preparativi a Mar-a-Lago, in Florida, dove Donald Trump attenderà i risultati delle elezioni presidenziali sognando di andare a festeggiare la vittoria con i sostenitori al centro congressi di Palm Beach, sempre Miami, a pochi metri dalla sua residenza. È convinto infatti di vincere perché Kamala Harris è un bluff, un buon contenitore che può affascinare i radical chic ma è inconsistente. Un solo alert: anche nel 2020 era impensabile che qualcuno potesse votare Joe Biden, già all’epoca poco presente a sé stesso, eppure ha vinto. La Harris non ha idee, non ha proposte, non sa neanche lei da che parte stare sui mille argomenti di cui deve occuparsi il Presidente degli Stati Uniti. Cambia posizione continuamente e l’ha sempre fatto da quando è in politica: sull’immigrazione, sulla sicurezza, sull’economia. E poi è donna ed è nera, che può piacere in teoria e suona bene, ma nel segreto dell’urna la maggioranza degli americani voterà per l’uomo bianco e burbero. Neanche la più grande democrazia del mondo è ancora pronta per il grande passo. Si può sgolare Julia Roberts: le donne che hanno sposato uomini trumpiani non li tradiranno. A loro piace il modello Donald, altrimenti avrebbero scelto altri mariti.

 

  

 

E possono fare tutti gli endorsement che vogliono i direttori dei giornali, non spostano un voto: chi li legge ha le idee chiare e distingue gli editoriali liberi da quelli volti solo a creare castelli di accuse e a mostrarsi sdegnati o a raccontare un mondo che esiste negli auspici degli autori e non nella realtà. In America i giornaloni sono sempre stati a sinistra, come lo show business. Domani si vota per il 47mo Presidente Usa ed è tutto un fiorire di sondaggi, ipotesi, illazioni, accuse, parolacce e gestacci. La battaglia fra Donald Trump e Kamala Harris è all’ultimo voto e per conquistarlo i due candidati sono pronti a tutto. Dopo due mesi di campagna elettorale entusiasmante, da agosto quando è scesa in campo al posto di Joe Biden fino a settembre, la Harris sembra aver perso il tocco magico ma soprattutto ha manifestato veramente chi è: non la paladina moderata della classe media, a cui puntava per strappare voti a Trump, ma l’idolo delle élite, del potere di Washington, degli opinion leaders e soprattutto del mondo glitterato della musica e dello spettacolo. Un film già visto nel 2016 con Hillary Clinton che era sostenuta da tutti i vip d’America, ma evidentemente non dagli elettori.

 

 

L’esatto contrario di Trump che cura i suoi rapporti con le masse e i disperati, alla larga dai privilegiati, pur essendo lui stesso uno di questi ultimi. Il problema dei democratici è che si concentrano sulle minoranze, siano essi le donne che lottano per l’aborto o le persone Lgbtq+, i latinos o gli afroamericani, tutte persone assolutamente da rispettare, ma il grosso dei voti viene dall’americano medio, quello che oggi paga le uova due volte il prezzo di quando c’era Trump. È stato questo lo spirito con cui è stata impostata la campagna di Trump indipendentemente da chi fosse il candidato democratico, Biden o Harris. Sono entrambi artefici, con la loro amministrazione negli ultimi quattro anni, del crollo del potere d’acquisto dei salari e del picco dell’inflazione. E di due guerre, in Ucraina e in Medio Oriente, cui Trump metterà fine. Vero o falso che sia, questo è il pensiero diffuso. Tutto il resto non conta. Tanto meno i tentativi di tirare la volata ad Harris diffondendo ricostruzioni e retroscena a lei favorevoli, spingendo sondaggi da cui emergerebbe un suo recupero, dopo aver perso il vantaggio iniziale, in questo o quello Stato, tra questo o quel gruppo di elettori. Capofila il New York Times, molto seguito e imitato in Italia. Chissà che poi, come il 2016, dopo le elezioni non debba chiedere scusa ai lettori per aver raccontato una realtà che non esisteva. Otto anni fa se ne resero conto ma nelle ultime settimane con Kamala Harris ci sono ricascati.