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Usa, Kennedy Jr crolla nei consensi. Ma resta ancora decisivo per far vincere Trump

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Lucio Martino
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Nel giro di un mese il sostegno attribuito dall’elettorato a Robert Kennedy Jr. è passato da un massimo del 15% a un minimo del 5% a livello nazionale. Tale crollo è stato attribuito alla candidatura del vicepresidente Kamala Harris, candidatura che ha avuto l’effetto di coagulare intorno a sé un elettorato profondamente democratico ma che però, rifiutandosi di votare per Joe Biden in quanto giudicato come ormai inadatto all’incarico, aveva momentaneamente abbracciato la candidatura di Kennedy. Supponendo che la maggioranza dei suoi residui sostenitori andrà nella direzione da lui indicata solo pochi giorni fa, quando ha annunciato il suo appoggio alle ambizioni elettorali dell’ex presidente Donald Trump, è quasi inevitabile chiedersi su come la scelta del nipote del presidente John Kennedy impatterà sul risultato finale. Almeno per il momento, tutto lascia supporre che anche le presidenziali del 2024, come già quelle del 2016 e del 2020, saranno decise da un numero veramente ridotto di voti, distribuiti all’interno di un numero altrettanto ridotto di Stati. Una tale eventualità sembra poi confermata dalla comparazione dei sondaggi odierni con quelli di quattro e di otto anni fa.

 

 

A fine agosto del 2016, la senatrice Hillary Clinton aveva un vantaggio pari al 5% su Trump, eppure quest’ultima ha poi perso le elezioni perdendo in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin per un totale complessivo di soli 78.000 voti, qualcosa come lo 0,06% dell’intero elettorato. Sempre a fine agosto, ma quattro anni fa, Biden era in vantaggio di un 7% su Trump, ma poi il presidente in carica ha vinto le elezioni solo grazie ai 43.000 voti con i quali ha superato l’ex presidente in Arizona, Georgia e Wisconsin, vale a dire grazie a un margine di vantaggio dell’ordine di solo lo 0,03% del totale. In queste circostanze di sostanziale quasi equa spartizione dell’elettorato da parte dei due grandi partiti, i risultati di queste due tornate elettorali sono stati condizionati in modo determinante dal voto espresso a favore dei partiti terzi da una manciata di elettori. Nel 2016, Jill Stein, la candidata del Partito Verde, ha ottenuto più voti in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania di quanti persi dalla Clinton contro Trump sempre in questi tre stati. Senza la Stein, la Clinton sarebbe diventata presidente. D’altra parte, Jo Jorgensen, la candidata del Partito Libertario nel 2020, ha ottenuto più voti in Arizona, Georgia e Wisconsin di quanti a Trump ne sarebbero serviti per battere Biden in questi tre stati e conservare la presidenza.

 

 

Quest’anno, la gara in questa piccola serie di Stati aperti a ogni risultato non sembra davvero meno serrata. Se si prendono in considerazione anche solo i sondaggi più favorevoli alla candidatura Harris, quest’ultima sembra poter contare su circa 250 dei 270 voti elettorali necessari per spalancarle le porte della Casa Bianca, mentre Trump sembra in grado di assicurarsene altri 260. Nel caso in cui queste valutazioni si rivelassero corrette, a decidere l’esito delle elezioni sarà una Pennsylvania in cui i sondaggi segnalano i due grandi rivali come sostanzialmente appaiati. Ne consegue che, in un momento nel quale la Harris sembra godere di un vantaggio pari al 2% che, per se, la condannerebbe alla sconfitta, posta la particolarità di un meccanismo elettorale nel quale vincere la semplice maggioranza dei voti su scala nazionale può rivelarsi insufficiente, il 5% di Kennedy potrebbe rivelarsi come un qualcosa di particolarmente importante, forse di decisivo.

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