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Stati Uniti, tra copie e perdenti è calato il sipario sulla convention-show

Lucio Martino
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Negli Stati Uniti, i congressi nazionali si sono evoluti in enormi eventi multimediali accuratamente pianificati per porre in evidenza le personalità a cui affidare la guida del paese, più che i contenuti programmatici. A questo fine, i quattro giorni del Congresso democratico di Chicago sono stati organizzati in due diverse fasi, delle quali la prima è stata molto più interessante della seconda. La prima, che ha abbracciato due giornate, ha avuto per protagonisti gli esponenti più illustri di una gerontocrazia che da ultimo ha dimostrato di controllare il presente e di decidere il futuro del partito al punto da poter cambiare in corsa regole e procedure ormai da tempo consolidate. Nella seconda, la stessa gerontocrazia ha consegnato la scena alle due persone scelte per mantenere il controllo della Casa Bianca: il governatore Tim Walz e la vicepresidente Kamala Harris. L’uno e l’altro, nei propri discorsi di accettazione, si sono distinti per il tentativo di porre quanta più distanza possibile tra loro e l'amministrazione di Harris ha fatto parte fin dal primo giorno, e di attribuire ogni male ai repubblicani, trascurando il fatto che ben tre delle ultime quattro amministrazioni sono state a guida democratica.

 

 

 

Il primo giorno del congresso è stato dedicato ai due più grandi perdenti dell’intero establishment democratico, vale a dire quella Hillary Clinton sconfitta nelle presidenziali del 2016 e quel Joe Biden destinato a passare alla storia come l’unico candidato ad aver perso la Casa Bianca già nel luglio dell’anno elettorale, invece che nel novembre come tutti gli altri. Hillary Clinton, anche in questa occasione, ha dimostrato di non riuscire a superare la sconfitta patita per mano di Donald Trump, tanto da risolvere la parte più rilevante del suo intervento proprio in un diretto attacco contro l’ex presidente. Biden, da vero uomo di partito, si è comportato come se fosse un presidente alla fine di un secondo mandato e, in quanto tale, impossibilitato per legge a ricandidarsi, invece che un presidente costretto, molto controvoglia, al ritiro dal suo stesso entourage. Quale sia il posto riservato ai perdenti dal partito democratico è apparso chiaro da una programmazione che ha escluso dall’orario di punta Hillary Clinton e sepolto il presidente in carica sotto un elenco quasi infinito di oratori minori, tanto da concedergli la parola solo alle undici e trenta di Chicago, la mezzanotte e mezza a New York, in modo che fossero davvero in pochi a seguirne in diretta un discorso con il quale Biden ha in effetti chiuso mezzo secolo di carriera politica.

 

 

 

Il secondo giorno è stato invece il dominio riservato dei grandi vincenti, avendo avuto per protagonisti, ovviamente in orari ben diversi di quelli riservati a Biden, personalità del calibro di Bernie Sanders, Chuck Schumer e dei coniugi Obama. L’obiettivo comune dei loro interventi è stato di sostenere che Kamala Harris è tanto pronta quanto preparata ad assumere la carica di presidente degli Stati Uniti. Forse per via del loro indiscusso prestigio, Sander, Schumer e gli Obama non hanno percepito il bisogno di suffragare tale affermazione con un qualche elemento, diverso dalla fiducia in loro riposta dal loro pubblico, nonostante Harris nei quattro anni trascorsi al Senato si è distinta per non aver proposto un solo disegno di legge, mentre nei tre anni e mezzo da vicepresidente ha fatto se possibile ancora meno, tanto da aver a lungo alimentato non pochi dubbi, all’interno del suo stesso partito, sull’opportunità di una sua presidenza. Nell’insieme, il congresso democratico di Chicago è stato un evento relativamente noioso, privo di vere novità anche dal punto di vista mediatico, soprattutto agli occhi di quanti ricordano ancora quel congresso che a Denver sancì la candidatura di Obama alle presidenziali del 2008. Persino «yes she can», lo slogan intorno al quale è stato strutturato l’evento, è direttamente mutuato da quel «yes we can» che fu il grido di battaglia di Barak Obama.

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