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Hamas e Isma'il Haniyeh, perché la morte di un terrorista non è una cattiva notizia

Roberto Arditti
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Un’operazione condivisa anche con i Paesi che siedono al tavolo del negoziato per il cessate il fuoco a Gaza. Il raid che ha ucciso Ismail Haniyeh, il capo di Hamas mentre si trovava a Teheran, non Isma'il Haniyeh ha incontrato quella morte di cui parlava spesso la scorsa notte a Teheran, dopo aver lasciato da molto tempo la natia Gaza per la più confortevole Doha, assistito con ampio sforzo economico dal governo del Qatar ma proprio per questo assai inviso a buona parte del movimento di cui faceva parte da quarant’anni, cioè Hamas. La sua uscita di scena a poche ore dall’insediamento del nuovo Presidente iraniano Masoud Pezeshkian arriva come una bomba nel già precario equilibrio mediorientale, ma ha tutte le caratteristiche per essere qualcosa di molto diverso da una cattiva notizia, ora cercherò di spiegare perché. Prima però occorre chiarire alcuni punti, senza i quali l’intricato scenario dell’area rischia di apparire come totalmente incomprensibile. Intanto va detto che ci troviamo a poche ore dall’ennesimo clamoroso fallimento del sistema di sicurezza iraniano, che non ha saputo difendere il leder delle forze Quds (corpo speciale delle Guardie della Rivoluzione) Qasem Soleimani (ucciso da un raid americano nel 2020) ed ha subito la scomparsa del capo del governo Ebraihim Raisi in un incidente d’elicottero i cui contorni sono tutt’altro che chiari (maggio 2024).

 

 

 

In realtà l’elenco degli incidenti sarebbe assai più lungo, ma ciò che conta è che ora vi si aggiunge il raid della notte di mercoledì, che toglie di mezzo la figura politicamente più significativa di Hamas, storico braccio destro del fondatore Ahmed Yassin nonché Primo Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese per poco più di un anno, nella breve stagione di accordo con Abu Mazen tra il 2006 e il 2007 (nessun altro ha mai avuto un incarico di tale importanza nel movimento). Poi occorre comprendere che dal 7 ottobre tutto è cambiato nella zona, perché l’eccidio spaventoso di quel giorno porta Israele (e l’ampia coalizione internazionale che lo sostiene, compresi attori di primo piano dell’area come l’Arabia Saudita) a sentire minacciata come mai prima la propria sicurezza nazionale ed anche l’esistenza stessa dello Stato, ragione per cui l’uso della forza ha nettamente preso il sopravvento sull’azione diplomatica. Infine va considerata la “finestra” elettorale americana, che rende il tempo tra qui è novembre meno influenzato dalle indicazioni di Washington, che anzi ritiene utile sistemare alcune partite prima di provare con l’anno nuovo a giocare (in forma assai rivista) la carta della pace, soprattutto se sarà Donald Trump il Presidente.

 

 

 

Eccoci dunque al punto decisivo, che si può cogliere solo tornando al 7 ottobre. Quel giorno, con i suoi morti, i suoi stupri, le sue violenze su vecchi e bambini, i suoi rapimenti di civili inermi, segna un punto di non ritorno per il vertice di Hamas, sia nella sua ala politica (Haniyeh ne era la figura più importante) sia per quella militare (che vede Yahya Sinwar al vertice). Hamas sceglie la guerra come strada maestra nel confronto con l’odiato Israele, di cui non riconosce il diritto all’esistenza e di cui cerca la distruzione con ogni mezzo, anche attraverso il sacrificio di vite palestinesi (è proprio di Haniyeh il discorso pubblico più esplicito in tal senso). Hamas provoca la distruzione di Gaza dove governava con potere assoluto (dopo avere eliminato fisicamente ogni opposizione interna) dal 2005, perché nell’interpretazione dei leader attuali la guerra viene prima, infinitamente prima, della pace. Certo, in una situazione di tale complessità tutti hanno un po’ di torto e un po’ di ragione: sarebbe ridicolo semplificare troppo. Ma se pace sarà un giorno, essa non potrà che arrivare con figure nuove, totalmente nuove, sul fronte palestinese.
Quelle degli ultimi anni, quelle del 7 di ottobre, non hanno più alcuna legittimazione per stare al tavolo del futuro, che si dovrà trovare per gli israeliani ma anche per la gente di Gaza e della Cisgiordania.

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