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Francia, il compagno Macron: conferma Attal e progetta un governicchio

Aldo Torchiaro
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Il rebus del governo francese inizia con una sciarada. Se il fronte anti-lepenista ha vinto le elezioni, adesso va trovata una maggioranza. Non sarà facile. «Galliae divisa est in partes tres», preconizzava già Giulio Cesare all’indomani della sua prima missione oltralpe. Il quadro la vede politicamente spaccata in tre blocchi: gauche, centro ed estrema destra, con la maggioranza alla sinistra ma nessuno dei tre gruppi vicino alla soglia dei 289 seggi della maggioranza assoluta. Mentre Parigi si appresta a ospitare le Olimpiadi e a lanciare le celebrazioni per il 14 luglio, festa nazionale, il Paese entra nella palude delle incognite. Lo spettro dello stallo si prefigura davanti ai numeri che politici e politologi compulsano febbrilmente. Il primo ministro uscente, Gabriel Attal, si è visto respingere le dimissioni dal presidente Emmanuel Macron. Una palla calciata in tribuna. Una presa di tempo. «Per il momento – ha detto Macron – va garantita la stabilità del Paese». D'altra parte una data precisa per la nomina del premier non c'è e il presidente francese, che resterà in carica fino al 2027 e ha sempre escluso di dimettersi, è atteso nei prossimi giorni a Washington per il vertice Nato. E una strategia militare servirebbe davvero, all’Eliseo, per capire come districarsi in questa fase post-elettorale.

 

 

Il macronismo, dato per morto, ha aggirato l’accerchiamento. Ensemble, con Renaissance del presidente in carica, il MoDem di François Bayrou – «il gemello francese di Francesco Rutelli», lo chiama chi conosce entrambi – e Horizons di Edouard Philippe sono risorti dalle loro ceneri. Adesso devono fare i conti con quello stranissimo animale politico che è Jean-Luc Mélenchon e il suo France Insoumise, forza antisistema, rossobruna, nella realtà incompatibile e inconciliabile con tutti gli altri partiti. Lui, Mélenchon, abituato a spararla grossa tutti i giorni, adesso si sente un Che Guevara. Il Nuovo fronte popolare – sigla che solo un mese fa non esisteva neanche nella fantasia dei francesi – ha permesso a una fazione colorita e picaresca di vestire l’abito buono per Matignon. Il palazzo del governo. La sigla-ombrello della federazione di sinistra ha ottenuto 182 deputati, sì, ma solo 71 solo di Mélenchon. Gli altri sono disseminati tra cinque sigle diverse, tra cui 61 del Partito socialista – in versione riformista – di Glucksman. Poco importa. Mélenchon non cambia registro, cavalca la piazza e chiede che gli sia affidato il governo. «Per attuare, tutto intero, il nostro programma». Scenario non scontato visto che non c'è una regola fissa che prevede un premier proveniente dalla prima forza politica in Parlamento. Escludendo il Ressamblement National di Le Pen (e del giovane Jordan Bardella) sarebbe proprio il partito di Macron.

 

 

Dal quartier generale di RN tira un’aria pesante. Le Pen dice che «Sono stati sbagliati i candidati». Bardella, l’italo-francese che, figlio di migranti, ha provato a incarnare la battaglia sulla primazia dei francesi purosangue, si sente chiamato in causa e parlando davanti alla sede del partito, ha parlato di «sconfitta» e ha riconosciuto degli «errori», assumendosi la sua «parte di responsabilità». Ma nessuna resa. Il Rassemblement accusa Mélenchon e Macron di aver sottoscritto un «Accordo osceno». Certamente contronatura, vista la contrapposizione frontale tra i due. E adesso? Macron proverà ad esplorare un premier di sinistra-sinistra, anche solo per bruciarlo e passare avanti, o dirà quello che ha nel cuore? Nella seconda ipotesi, tornando a computare questo e quello, una maggioranza trasversale – all’italiana – si troverebbe: verdi e socialisti, i tre partiti centristi liberali e quei Républicains che sono la versione francese di Forza Italia: liberal conservatori membri del Ppe. Praticamente una maggioranza Ursula. In salsa francese. Edouard Philippe, ex primo ministro di Macron (che lo indicherebbe come futuro presidente, nel 2027) lo ha detto chiaro e tondo, invitando le forze politiche a «favorire la creazione di un accordo» senza i lepenisti e Mélenchon. Un governo-ponte potrebbe essere guidato da un economista di chiara fama, imitando il modello Draghi, per un anno. Fino alle elezioni che già tutti preparano per il 2025. Christine Lagarde, da anni alla guida della Bce a Francoforte, sarebbe già stata chiamata da Parigi.

 

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