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Regno Unito, il ritorno dei laburisti: Starmer a valanga e addio di Sunak

Pietro De Leo
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Non sarà la cool Britannia del 1997, non ci saranno Spice Girls e Oasis a cementare l’immaginario traversando la manica e l’Oceano, e però son tornati i laburisti. Quando andiamo in stampa, gli exit poll delle elezioni in Regno Unito accreditano il Labour a 410 seggi (+209) con una maggioranza schiacciante, mentre i Tories crollano a 131 seggi (-241). L’altro grande atteso dell’appuntamento, il Refor Uk di Nigel Farage, raggiunge il quarto posto con solo 13 seggi. Il sistema inglese, infatti, assegna i 659 seggi della Camera dei Comuni in base al meccanismo «first pass the post», vince nel collegio chi prende più voti, senza ballottaggio. Cambia pagina, cambia storia. Dopo quattordici anni di governo conservatore. Il partito è giunto all’appuntamento sfibrato, con la guida del Primo Ministro Rishi Sunak che si portava tutto sulle spalle il peso di quasi tre lustri complicatissimi, i contraccolpi delle divisioni e cambi di pelle. Si parte dal frontale con la storia di David Cameron (ministro degli esteri uscente), figlio dell’educazione d’elite di Eton che distrusse la sua carriera prima indicendo il referendum sulla Brexit, e poi perdendolo.

 

 

 

Il testimone di Downing Street passò poi a Theresa May, «exiteer» senza troppo impeto, smontata pezzo pezzo da una trattativa per lo sganciamento da Bruxelles complessa ed estenuante. Inizia poi la stagione di Boris Johnson, tra i leader dell’ «exit» che decide di andare al voto a qualche mese dal suo ingresso nella residenza più ambita dai politici inglesi, Natale 2019. Vince, ma un’onda nera si allungava sul Regno, come sul resto del mondo, il Covid. Talentuoso, geniale, uomo di sterminata cultura e altrettanta spregiudicatezza politica l’impatto della figura di Johnson si abbatté su un partito di grande tradizione. Il dramma della pandemia si intrecciò con il racconto del Primo Ministro, fatto di aperitivi di staff nel cortile di Downing Street mentre il popolo era chiuso in casa, spese allegre e consiglieri un po’ fuori dall’ordinari. Il partito si spacca e comincia a perdere consensi sul territorio. Johnson molla pochi giorni prima della morte della Regina Elisabetta, cui era letteralmente devoto nel 2022. Entra il suo ministro degli Esteri, Liz Truss, che dura neanche due mesi. E così inizia l’era Sunak. La Spoon River dei leader conservatori all’ultima pagina consegna però un partito molto diverso, caduto in scivolate dirigiste sul tema ambientale e restrittive quello fiscale, con punte di gigantismo normativo. Basti pensare al piano antifumo promosso da Sunak, roba da far rigirare nella tomba Churchill. E intanto, qui sulla terra, si son voltati dall’altra parte gli elettori.

 

 

 

E arriverà a Downing Street, quattordici anni dopo l’incolore Gordon Brown, il dilemma labour Keir Starmer, onesto avvocato del Surrey, figlio di un piccolo imprenditore e di un’infermiera. Tifoso dell’Arsenal, si è occupato nel proprio lavoro di diritti umani, e fu peraltro nel pool legale di Berlusconi per il ricorso alla CEDU che il fondatore di Forza Italia intentò contro la condanna subita nel 2013. Starmer ha ereditato un partito ingolfato nell’arroccamento ideologico di Jeremy Corbyn, riconducendolo nell’alveo riformista e portandolo a crescere. Ha ricominciato a parlare di «securenomics», riallocazione delle produzioni per creare posti di lavoro, ha assunto una linea rassicurante in grado di placare una classe media nei marosi dei tempi difficili ma, per certi aspetti, stanca degli avvitamenti conservatori. Non è certo tempo di blairismi, gli anni ’90 son finiti da un pezzo e ognuno fa leadership a sè, ma il parallelo si fa e si farà. E si son ribaltate le dinamiche. Ora sono i Tories, che hanno bruciato leader come bastoncini d’incenso, a doversi ridare un futuro. Su cui pare non disdegni il ri -affaccio Boris Johnson. D’altronde è appassionato di cultura classica, dove la figura di Cincinnato ha sempre pieno fascino.

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