qualcosa non torna
Mosca, zero controlli e il movente dei soldi: le falle dell’attentato (e di Putin)
Nonostante le rivendicazioni dell’Isis, sulla cui autenticità non sembrano esserci dubbi, qualcosa non torna nell’attentato di venerdì sera a Mosca che è costato la vita a 137 persone e ferito altre 180. Incongruenze e dubbi che non contribuiscono a definire con chiarezza il perimetro di quanto accaduto, forse anche a causa della disinformazione russa e, in alcuni casi, dallo choc per il ritorno del gruppo terroristico, che ha colpito anche l’opinione pubblica occidentale. Tra i punti oscuri della strage c’è sicuramente la facilità con cui gli attentatori sono riusciti ad entrare al Crocus City Hall, aprire il fuoco contro civili inermi, appiccare un incendio e poi scappare, senza troppa fretta, usando la stessa auto parcheggiata poco lontano. Il tutto senza essere mai fermati o intercettati dalla polizia o dalle forze di sicurezza. Secondo alcune ricostruzioni, infatti, il gruppo composto da almeno quattro terroristi avrebbe lasciato l’automobile all’altezza del passaggio pedonale 14 del Crocus Expo, centro commerciale che al suo interno contiene la sala concerti della strage, dovendo così percorrere circa 200 metri a piedi. Diversamente, avrebbero potuto arrivare molto più vicini alla sala in modo da dimezzare il percorso a piedi. Un elemento apparentemente irrilevante, ma che dimostrerebbe la preparazione del gruppo e la certezza di non trovare ostacoli.
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E proprio la mancanza di sorveglianza del centro commerciale è l’altro grande interrogativo di questa storia. All’interno di un regime, come quello russo, la capacità di garantire la sicurezza prevenendo anche azioni del genere, è un fattore imprescindibile per la credibilità dell’autocrate. Ma in Russia, a quanto pare, in questo caso si è verificata una falla nel sistema, che non è riuscito neanche a intercettare preventivamente il gruppo che ha agito. Servizi segreti e polizia non avrebbero individuato i soggetti a rischio presenti nel Paese, qualcuno almeno già dal 4 marzo, i quali hanno avuto il tempo di armarsi (oppure di entrare in Russia già armati). Altro fattore non trascurabile è la sottovalutazione delle informazioni che gli Stati Uniti, il 7 marzo e poi il 19, avrebbero inviato proprio a Mosca e che lanciavano l’allerta sul rischio attentati, con particolare riferimento ai concerti. Ma Putin ha bollato queste informazioni come un «ricatto per destabilizzare il Paese». Appare più probabile, al momento, che la sottovalutazione delle informazioni sia stata la causa di quanto accaduto, con le relative responsabilità degli apparati di sicurezza russi. E se un regime non può apparire debole agli occhi dei cittadini usando tutti gli strumenti possibili per evitarlo, è altrettanto possibile che un evento del genere venga utilizzato dalla propaganda per raggiungere altri scopi.
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Nonostante Isis, attraverso i suoi canali «ufficiali», abbia mandato di fatto tre rivendicazioni, Putin continua a sostenere un coinvolgimento dell’Ucraina, almeno nella fuga degli attentatori. L’ultima rivendicazione è arrivata ieri, con un video che mostra alcune fasi dell’attacco riprese dagli attentatori. Uno di questi, inoltre, pronuncia due volte la frase «Allahu akbar», «Allah è grande». Le autorità russe hanno fatto sapere di aver arrestato 11 persone coinvolte nella strage, di queste 4 sarebbero gli esecutori materiali. Alcune di queste sarebbero state catturate nei pressi di Bryansk, città poco distante dal confine tra Ucraina e Bielorussia. Elemento che, secondo Putin, dimostrerebbe la volontà di Kiev di tenere aperto un varco per la fuga dei terroristi che avrebbero dovuto trovare riparo nel Paese. E proprio il video di confessione di uno degli arrestati ha sollevato perplessità. L’uomo, proveniente dal Tagikistan, ha detto di aver commessola strage per soldi, offerti da un presunto predicatore su Telegram. Ma sulla spontaneità di questa confessione esistono dubbi. Per quanto riguarda la matrice dell’attentato, è stato rivendicato da Isis Khorasan, la costola afghana del gruppo terroristico, che individua nella Russia di Putin uno degli obiettivi da colpire per l’impegno contro il terrorismo in contesti come Siria, Iraq e Afghanistan.