L'Iran del terrore è figlio del pensiero teocratico nato in Occidente
Non v'è dubbio che in Iran sia in atto una vera e propria rivolta: da settembre, il popolo lotta contro un regime oscurantista e sanguinario. Uccisi nelle strade, morti nelle mani della polizia ed esecuzioni capitali, sono inequivocabile indice della durezza del braccio di ferro tra regime e piazza: tutto quel che è diverso dall'omologazione imposta e, dunque, rappresenta e insegue il sogno della libertà, è represso e sterminato dal regime. Simbolo del crollo di consenso popolare nei confronti della teocrazia islamica iraniana, le donne scendono in piazza, si strappano platealmente il velo e lo sventolano al mondo intero, si tagliano pubblicamente ciocche di capelli; e muoiono: in strada sotto i colpi degli sgherri degli ayatollah, nei posti di polizia per le torture loro inflitte, per mano del boia, in un Paese in cui la forca miete vite come in nessun altro luogo al mondo: vite di donne, vite di ragazzi minorenni, vite di persone la cui unica colpa è di essere o sentirsi diversi dal modello imposto da una visione distorta della fede e delle sue regole.
È senz'altro doveroso che i nostri Governi, vieppiù dopo le numerose esecuzioni capitali di giovanissimi, tutti accusati di muharebeh, ossia di fare «guerra contro Dio», facciano sentire forte la loro voce di condanna per le violenze e le repressioni di persone inermi; che venga sospeso ogni accordo con il regime teocratico, nucleare compreso; che venga inasprito l'embargo economico-commerciale; che vengano sanzionati i membri della struttura di potere della Repubblica islamica in Iran, che siano attivate le procedure giudiziarie internazionali per procedere nei confronti di coloro che si macchiano di crimini contro l'umanità; che non abbiano paura, se del caso, di richiamare gli ambasciatori.
Altrettanto importante, però, è capire e denunciare, senza alcuna ipocrisia, come in Iran accada né più né meno quel che è tipico di tutti i regimi che, in qualche modo, nel corso della storia, sentendosi investiti da Dio, si sono lasciati andare a ogni sorta di nefandezze. Un male di cui la civiltà occidentale, non è restata immune: solo in tempi relativamente recenti le nostre società sono faticosamente riuscite a distinguere tra Dio e Cesare, tra politica e religione, riducendo al minimo e non senza strascichi le interferenze reciproche
. Per rendersene conto basterà ripartire dalla Lettera ai Romani di san Paolo che, nei primi due versetti del 13° capitolo, raccomanda: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c'è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno sudi sé la condanna».
La visione paolina del mondo segna il vertice del quietismo reazionario: rinnegato il nazionalismo della teocrazia giudaica, San Paolo conserva il principio teocratico identificando tanti mandati terreni di Dio quanti sono sulla crosta terrestre i governi in arcione. Dicendo che l'autorità viene da Dio, Paolo si colloca nel punto in cui il cinismo quietistico confina con l'infatuazione teocratica, cioè li combina: il cinico fa il verso della scimmia se le autorità lo prescrivono, pur di lucrare un vantaggio o scongiurare un danno; il fanatico, invece, o affronta il patibolo o ci manda gli altri piuttosto di disubbidire al comandamento piovuto dal cielo. Su questo terreno, anche nel nostro presente, si colgono rigurgiti di «terrore giudiziario meritorio».
Del resto, che la ferocia giudiziaria piace in ogni tempo e a ogni latitudine ai patiti del principio teocratico, lo dimostra la famosa pagina sul boia, in cui Joseph de Maistre, nel bodoire di Saint-Pétersbourg, espone i meccanismi repressivi occulti o almeno discreti, che società chiuse lavorano nelle società chiuse: nessun elogio morale può essere tributato al boia, «perché ogni elogio morale presuppone un rapporto con gli uomini, mentre egli non ne ha alcuno; ogni grandezza, ogni potere, ogni subordinazione dipendono, però, da lui: egli è l'orrore e il legame dell'associazione umana; togliete dal mondo questo agente incomprensibile, e nello stesso istante l'ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare. E ogni luterologo sa quali conclusioni ne siano state dedotte sulla pelle dei contadini ribelli: mentre un assassino offende questo o quel membro della società, il rivoltoso aggredisce il fondamento stesso della convivenza sociale; col primo bisogna rispettare le regole del gioco, processo e garanzie della difesa, il secondo va abbattuto sul posto come un cane idrofobo, se no ammazza te e tutto un Paese: «Non si deve attendere che l'autorità giudichi e agisca, visto che non è in grado di farlo (...) ogni suddito fedele deve andarle in soccorso pugnalando, decapitando, sgozzando, e arrischiando corpo e beni per salvarla» (Lutero, Lettera sul libretto contro i contadini, in Scritti politici, Torino 1959, 322); perché niente eguaglia un rivoltoso quanto a veleno diabolico: in tempi convulsi, «un signore si guadagna il cielo versando sangue», meglio che se pregasse. Inutile dire che la rottura rivoluzionaria e il conseguente incivilimento dei costumi hanno avuto un'impronta antiecclesiastica: in Germania, a chiedere per primi l'abolizione della pena di morte, furono i contadini in rivolta; in Francia fu con la rivoluzione che sopravvenne la condanna del sadismo giudiziario.
Quando c'è di mezzo la salute dell'anima, il rogo, la ruota lo squartamento, i mille modi d'infierire su un poveraccio inerme sono espedienti pedagogici appena adeguati. Bisogna poi tener conto della malignità naturale dell'uomo di chiesa e del gusto festoso dello spettacolo: la gente va all'esecuzione in piazza come andrebbe a teatro. Se ne prenda atto senza ipocrisie e non si potrà allora restare inerti, silenti, indifferenti, di fronte al grido che proviene dalle strade e dalle piazze iraniane, lasciando che Khamenei ed i suoi scagnozzi si sentano liberi di procedere «nel nome di Dio» con il terrore, le violenze, gli stupri e le esecuzioni di massa.