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Siamo con la Nato ma non fino al punto di perdere la nostra dignità

Riccardo Mazzoni
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«Le ragioni che stiamo difendendo come Occidente nel conflitto ucraino sono le stesse che mossero mio padre nel chiedere rispetto all'alleato americano: impedire che lo scenario internazionale sia governato dalle leggi delle prepotenza e non da quelle del diritto». Le parole di Stefania Craxi dopo l’elezione a sorpresa alla presidenza della Commissione esteri del Senato aprono molti spunti di riflessione sulla politica estera italiana e sui valori che incarnano il nostro interesse nazionale. L’Italia – secondo la lucidissima analisi di Rino Formica - è stato un Paese di frontiera, ma di più frontiere. Frontiera Est-Ovest e poi Nord-Sud. È stato luogo di scambio tra due imperi, quello sovietico e quello americano, che tracciò anche una frontiera tutta interna: quella tra forze politiche che dovevano stare necessariamente insieme per ragioni costituzionali, ma erano divise per appartenenza a due diversi campi ideologici. Ebbene, come risolsero i problemi delle frontiere le classi dirigenti della prima Repubblica? Con un miracolo di equilibrismo in tutti i campi. Sulla frontiera Est-Ovest sono stati un Paese fedele all’alleanza atlantica, ma contemporaneamente coltivavano aperture al dialogo con il campo dell’Est. 

 

 

Una lezione che andrebbe ripassata oggi, in tempi di nuova Guerra Fredda. Andreotti, ad esempio, si spese sempre per prevenire il ritorno all’epoca dei nazionalismi che avevano generato solo guerre e regimi totalitari avendo una sola bussola: quella che indicava la strada dell’Europa unita e di un atlantismo convinto con una grande attenzione però al Mediterraneo e ai rapporti col mondo arabo, diventando così un protagonista assoluto della distensione internazionale. Il richiamo all’incidente di Sigonella dell’85 – con Craxi presidente del consiglio e Andreotti ministro degli Esteri – è a questo proposito illuminante: il leader socialista schierò il suo partito sulla linea di un solido atlantismo declinato però con un forte spirito di autonomia, e la notte in cui il governo decise di mandare i carabinieri a circondare i marines americani che dovevano catturare uno dei capi dell’Olp, Abu Abbas, segnò il culmine di quella politica, che puntava a non compromettere i rapporti con i Paesi arabi produttori di petrolio, ricoprendo allora l’Italia un ruolo da protagonista – adesso tristemente perduto - sullo scenario mediterraneo. La lealtà atlantica di Craxi non poteva essere messa in discussione, come la sua tenace avversione al mondo comunista: ne aveva già dato prova due volte, prima da segretario del Psi e poi da capo del governo, dicendo sì all’installazione degli euromissili, mandando aiuti a Solidarnosc e parteggiando apertamente per i dissidenti sovietici, per cui diventò uno dei leader europei più ascoltati dall’amministrazione Reagan nel contrasto con l’Urss. Tanto che dopo Sigonella la Casa Bianca attivò una linea rossa anche con Palazzo Chigi, oltre che con Parigi e Londra, e per volontà di Reagan aprì il G5 finanziario all’Italia, ammettendola definitivamente nel club dei Grandi.

 

 

Quei frammenti di storia dimostrano che si può essere convinti atlantisti e convinti europeisti conservando però indipendenza e dignità. A mettere davvero a rischio la nostra collocazione occidentale sono stati invece il governo dell’Unione e quello gialloverde, il primo a cause delle tensioni sull’allargamento della base di Aviano e sul blitz statunitense in Somalia contro Al Qaeda, il secondo con la sbandata filocinese e la firma dell’accordo per la Via della Seta. Oggi, mentre si stanno ridisegnando gli equilibri geopolitici, non possiamo che restare ancorati alla linea atlantica, pena un pericoloso isolamento internazionale, ma cercando di tenere a mente le vecchie lezioni della Prima Repubblica, da cui c’è ancora molto da imparare.

 

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