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Se il bavaglio alla stampa fa breccia anche nei «liberi» Stati Uniti

Mario Benedetto
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Washington, abbiamo un problema. Dallo spazio, infatti, le minacce sembrano spostarsi sulla terra, per la precisione nientemeno che nella culla della libertà, gli Stati Uniti, e nei confronti di una libertà primaria come quella della stampa. Una minaccia che per di più giunge per mano, o meglio per bocca, del Consiglio per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, guidata da quel democratico di lungo corso che è Joe Biden. «Irresponsabile»: così, infatti, il Consiglio ha definito il comportamento del New York Times, reo di aver pubblicato un articolo che ha portato a conoscenza dell’opinione pubblica l’aiuto che l’intelligence americana avrebbe fornito all’Ucraina per l’uccisione di generali russi. Nel condannare questo comportamento, la portavoce del Consiglio ha aggiunto che gli Stati Uniti forniscono si informazioni sul campo, ma per aiutare gli ucraini a difendere il loro Paese, non per eliminare avversari.

 

 

L’autorevolezza della testata è uno di quei fattori che ci mette oggi il più possibile al riparo dalle famose «fake news» e, in questo senso, il New York Times qualche buon credito può vantarlo. Appurata la veridicità della notizia, l’accaduto genera un’ulteriore news da commentare: nella patria della libertà, della libera manifestazione dell’«io» e del pensiero, il governo richiama all’ordine una testata, peraltro di una certa affidabilità. Una questione che balza all’occhio anche per il precedente che ha fatto rumore in tutto il mondo del caso Assange: da più parti tuttora si levano voci a favore del suo rilascio, proprio in virtù del fatto che il giornalismo non possa essere considerato un crimine. Cosa succede, senza retorica né ironia, al nostro amato popolo a stelle e strisce? Fa specie, e anche un po’ dispiacere, dover attualizzare il rapporto tra Stati Uniti e principi liberali rispetto a queste vicende di cronaca, specie nella misura in cui tutti noi siamo cresciuti con il mito liberale, a tratti anche libertario, americano. Citiamo nelle aule di università e nei dibattiti quello anglosassone come un sistema che è stato capace di dar vita a un modello di giornalismo universale, decantiamo la dichiarazione d’indipendenza e i principi che la animano come vessilli della Libertà. Valore materialmente incarnato dall’omonima statua, giunta a New York dalla lontana Europa, giova comunque ricordarlo, diventata un simbolo globale di questo bene supremo e indiscutibile. Sì, finchè non tocca interessi, al punto tale da essere messo in discussione anche dai bravi «democratici».

 

 

Quando c’è in gioco la sicurezza nazionale indubbiamente una certa attenzione va adottata, a tutti i livelli e da parte di tutta la cittadinanza, specie nell’accezione identitaria e attiva che gli americani attribuiscono all’interpretazione questo ruolo. Da parte di un’amministrazione, però, bisognerebbe porsi l’interrogativo dell’utilità e dell’opportunità di dichiarazioni pubbliche, e interventi, che rischino di mettere in discussione un principio come la libertà di stampa. Forse anche questo può spiegare il 42° posto occupato dagli States nella classifica 2022 resa nota di recente dal World Press Freedom Index. Noi italiani, dalla nostra posizione numero 58, possiamo lanciare questo monito, con la speranza che ci aiuti a scalare qualche posizione. Aspettando che gli Stati Uniti rimangano, o tornino, quelli del rispetto e dell’elogio del Quarto Potere.

 

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