Con Vladimir Putin siamo alla manifestazione più estrema dell'evoluzione tribale
Abbiamo promesso di partire dai fatti: raccontarli e analizzarli, per generare riflessioni e comportamenti consapevoli. Intanto facciamolo in modo diretto: chiarita la posizione critica nei confronti dell'assenza di sfumature, non vorremmo venga confusa con un alibi per non esprimersi in modo semplice, schietto. Tutt'altro. Parlando di tribù moderne e di comportamenti triviali, dobbiamo partire dalla manifestazione di violenza più antica e rude che si sta consumando sotto i nostri occhi: la guerra. L'associazione tribù-guerra richiama le parole di Einstein «non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale, ma la Quarta sì: con bastoni e pietre», che si prestano a diverse letture. Potrebbe trattarsi delle uniche armi rimaste dopo guerre combattute con quelle convenzionali, il cui potenziale si fa negli anni sempre più distruttivo. Potrebbe anche essere la metafora di lotte sempre più rozze e tribali. Sta di fatto che oggi siamo di fronte a uno scenario cui non avremmo pensato minimamente di assistere, per due motivi principali: primo, perché consapevoli dell'«ingegnerizzazione» dei conflitti globali, sempre in atto, ma con forme che tengono (o meglio, tenevano) congelate le armi vere e proprie; secondo, perché fiduciosi nei confronti di una cultura civile sempre più diffusa. Fiducia mal riposta: eccoci di nuovo allo scontro armato.
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Ancora senza pietre né bastoni, ma non per questo meno triviale. Anzi, forse anche peggiore. C'è, infatti, un livello bellico del conflitto, relativo a questioni geopolitiche, economiche e armamenti. C'è poi un livello di comunicazione e analisi. Qui si manifesta una nostra ulteriore, moderna, trivialità. Nel non voler (ri)conoscere le ragioni storiche di un conflitto, spesso ricondotto a gesta folli o a una lettura buoni-contro-cattivi. Putin è il cattivo, non c'è dubbio. Ma cosa lo ha spinto realmente a un gesto - ribadiamolo, ingiustificato - di così forte rivendicazione di sovranità? Da un lato ci sono le sue ragioni, quelle di tutela del suo popolo nonché, attenzione, delle origini comuni condivise con quello ucraino. La «Rus di Kiev»: questo il nome della tribù originaria di appartenenza dei due popoli. Le questioni tribali non sono solamente dedotte, ma scritte da chi, come il leader russo, le rivendica. Questo uno dei moniti, che va a sommarsi a quelli dichiarati dalla storia, della Russia prima, di Putin poi. Lo spiegava bene il compianto Victor Zaslavsky nella sua lettura del sistema sovietico: modello tramontato in Russia, forse a livello politico, ma non culturale. Il professore spiegava la tribalizzazione determinata dai nuovi movimenti regionalistici alla fine della guerra fredda, segno di un'instabilità che non avrebbe potuto che lasciare spazio a un forte potere centralizzato, qual è quello dello zar attuale.
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Venendo alla storia del conflitto a lui legata, Putin aveva a più riprese «minacciato» una reazione, solo per citarne alcune più eclatanti: in occasione della Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2007, nell'intervista a Oliver Stone del 2017, senza contare la crisi della Crimea del 2014. Tutto ciò, com'è ovvio, porta tutt'altro che a legittimazioni, quanto piuttosto a ulteriori, nette, condanne della condotta. Da stigmatizzare, appunto, ma non ignorare. Perché Putin non aveva certo ragioni per sentirsi minacciato, ma tale si sentiva, o dichiarava di sentirsi. Il ragionamento «tribale moderno» - ovvero, dei giorni nostri, perché di moderno in senso stretto ha ben poco - vuole rendere impossibili ricostruzioni basate sui fatti, se non solamente tramite la logica del buono-cattivo. La nostra cultura è, deve essere, ben altro rispetto alla sua superata versione guelfo-ghibellina che a volte mostra. La confusione dei livelli di analisi dei parametri «condanna» e «ricostruzione storica» getta ulteriore confusione su un conflitto che, come tutti, ha radici ben nascoste e oscure. Non è di questo che abbiamo bisogno per sconfiggere oggi Putin, domani gli altri assolutismi pericolosi per i nostri equilibri democratici. Abbiamo bisogno di recuperare civiltà, prima di tutto. E la clava rischia di diventare strumento di conflitto se non smettiamo, subito, di utilizzarlo come strumento di confronto.
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