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Fallimento Afghanistan, la Ue ci mollerà i profughi

Riccardo Mazzoni
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Le proporzioni della fuga dall’Afghanistan non sono ancora quantificabili, ma l’unica certezza è che i profughi, presumibilmente centinaia di migliaia, arriveranno presto a bussare alle porte dell’Europa, perché l’ipotesi di scaricare l’emergenza sui Paesi limitrofi, come avvenne per la guerra in Siria, si sta rivelando una pia illusione: la Turchia ha infatti già eretto un muro lungo quasi 300 chilometri alla frontiera con l’Iran perché «non abbiamo l’obbligo di essere il deposito dell’Ue per i rifugiati». Mentre la diplomazia mondiale è al lavoro per scongiurare una catastrofe umanitaria, i rischi di infiltrazioni terroristiche tra i migranti e la ripresa in grande stile dei traffici dell’oppio - con Draghi impegnato in prima fila a organizzare il G20 straordinario di Roma - ai piani alti di Bruxelles stanno elaborando i piani per non farsi trovare ancora una volta impreparati di fronte all’annunciata ondata di profughi.

L’idea è quella di applicare la direttiva sulla protezione temporanea, uno strumento adottato nel 2001 per far fronte all’emergenza del Kosovo ma finora mai utilizzato, per garantire uguali diritti a tutti i beneficiari e assicurare allo stesso tempo una concreta solidarietà tra gli Stati membri «in caso di arrivi massicci». All'articolo 2 si specifica che le persone interessate devono «essere in fuga da zone di conflitto armato o di violenza endemica» o essere «a serio rischio, o essere state vittima, di sistematiche o generalizzate violazioni dei loro diritti umani». A chi rientra in queste fattispecie – e chi fugge dai talebani ci rientra a pieno titolo - viene concesso un permesso di residenza temporaneo prorogabile di sei mesi in sei mesi, per una durata massima di tre anni.

 

 

 

 

 

Il governo italiano nel 2011 – anno record con più di 60 mila sbarchi da Libia e Tunisia – chiese per primo di attivare la direttiva, ma la proposta fu bocciata a larghissima maggioranza dal Consiglio europeo, perché allora come oggi la solidarietà nella condivisione dei migranti era pari a zero, e le Commissione europee che si sono succedute in questo decennio non sono mai riuscite a imporre a livello comunitario una efficace politica comune di asilo. Il regolamento di Dublino resta la trappola che obbliga solo i Pasi di primo approdo a gestire da soli, appunto, i richiedenti asilo. La protezione temporanea è una procedura di carattere eccezionale che garantisce - nei casi di afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi extra Ue che non possono rientrare nel loro Paese d'origine - una tutela immediata e temporanea, in particolare quando sussiste il rischio che il sistema d'asilo non possa farvi fronte. E qui nasceranno i problemi: se la direttiva del 2001 non è mai stata applicata, infatti, è perché per essere approvata necessita di una decisione a maggioranza qualificata del Consiglio europeo, che ha il compito di accertare formalmente l’effettività del «massiccio afflusso» di sfollati, ma finora non ne ha mai riscontrato l’esistenza, neanche nel 2015, anno in cui l’Europa registrò più di un milione di arrivi. Il rischio dunque è che anche questa volta l’Unione affronti l’emergenza in ordine sparso, facendosi scudo del tabù Dublino e non basterà riesumare una direttiva datata di venti anni, che sulla carta non dovrebbe lasciare margini di autonomia ai singoli Stati, per far sbocciare la solidarietà comunitaria. Un atto burocratico che rischia di finire come le altre direttive che definivano i criteri di ripartizione dei migranti, queste sì applicate ma sempre puntualmente disattese dai Paesi membri. La realtà è che una crisi come quella in atto dopo la caduta di Kabul richiederebbe un’Europa forte, capace di decisioni forti, di assunzione di responsabilità e di coesione politica. Non questo gigante d’argilla.
 

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