Lo dicono i numeri: non è per niente facile che Trump perda le elezioni
Cosa accade negli Stati in bilico e perché i Democratici non possono dormire sonni tranquilli
Dire con una buona dose di certezza chi vincerà le prossime elezioni presidenziali degli USA prima che siano stati scrutinati i seggi di tutti i 50 Stati confederati è pressoché impossibile. Ma da un’analisi parziale dei dati relativi alle ultime due elezioni - quelle del 2012 e del 2016 - si può trarre almeno una conclusione. L’unico a poter vincere o perdere questa sfida è Donald Trump. Dipende da lui - e dalla sua capacità di mobilitare l’elettorato che lo premiò quattro anni fa - il nome del prossimo inquilino della Casa Bianca.
Sembra una banalità, ma questo assunto contraddice almeno una delle affermazioni ricorrenti di chi pronostica un successo di Joe Biden: ossia che la "colpa" della sconfitta democratica di Hillary Clinton fu dovuta a due fattori. In primis l’incapacità della candidata del 2016 di "scaldare" i cuori degli elettori liberal; in seconda battuta, il poco coinvolgimento dei sostenitori democratici che quattro anni fa consideravano impossibile una vittoria di Donald Trump e, di conseguenza, avrebbero in parte disertato le urne. In base a questa scuola di pensiero, il fatto che Trump abbia dimostrato di poter vincere le elezioni sarebbe una condizione sufficiente per far sì che, al contrario, oggi ci siano migliaia di elettori democratici pronti a ritornare alle urne dopo essersi rifugiati nell'astensione nel 2016.
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Questa affermazione è un falso storico. Per scoprirlo basta confrontare il numero di votanti che scelsero Barack Obama nel 2012 e quelli che invece sostennero Hillary Clinton nel 2016. Ebbene, il dato è esattamente lo stesso. A votare per Obama nel 2012 furono 65.915.795 statunitensi. A votare per la Clinton quattro anni dopo, invece, furono in 65.844.954. Appena 70.841 elettori in meno. Un’inezia, del tutto insignificante a livello statistico.
Certo, chi conosce il sistema elettorale statunitense sa bene quanto questo dato conti molto poco. D’altronde, Trump riuscì a vincere le elezioni nonostante avesse raccolto circa tre milioni di voti popolari in meno rispetto alla Clinton, e questo perché negli Usa non conta conquistare più voti, ma vincere in più Stati possibile al fine di collezionare il maggior numero di delegati che poi, formalmente, eleggono il presidente. Per fare un paragone calcistico, è molto meglio vincere cinque partite per 1-0 piuttosto che vincerne una sola per 5-0. Ma anche rapportando il dato dei voti assoluti ai singoli Stati in bilico si scopre che, nella maggior parte dei casi, non è vero che la Clinton fece peggio di Obama. Anzi, in alcuni casi prese addirittura più voti. Ma a fare la differenza fu l’exploit inaspettato di Donald Trump in Stati fino ad allora considerati delle roccaforti dei Democratici.
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Proviamo a scendere nel dettaglio. Nel 2016 Trump riuscì a conquistare ben sette Stati che nel 2012 avevano invece votato in maggioranza per Barack Obama. Mentre la Clinton non ne conquistò nessuno di quelli che quattro anni prima avevano premiato Mitt Romney.
Degli Stati passati dai Democratici ai Repubblicani ce ne furono quattro, in particolare, che si decisero per una manciata di consensi. Si tratta della Florida, del Michigan, della Pennsylvania e del Wisconsin. Si tratta di Stati che mettono in palio complessivamente 75 delegati, quindi in grado di ribaltare completamente l’esito delle elezioni. Ebbene, come detto, in queste quattro "circoscrizioni" il distacco fu veramente minimo. In Florida (29 delegati) Trump si affermò con il 49% contro il 47,8% della Clinton (4.617.886 voti contro 4.504975, circa 113mila voti di differenza); in Michigan (16 delegati) Trump vinse con il 47,5% contro il 47,3% della Clinton (2.279.543 voti contro 2.268.839, circa 10.700 voti di differenza); in Pennsylvania (20 delegati) Trump la spuntò con il 48,6% contro il 47,9% della Clinton (2.970.733 voti contro 2.926.441, circa 44mila voti di differenza); nel Wisconsin (10 delegati), infine, Trump vinse con il 47,2% contro il 46,5% della Clinton (1.405.284 voti contro 1.382.536, circa 22.700 voti di differenza). Peraltro, gli ultimi tre Stati citati - Michigan, Pennsylvania e Wisconsin - facevano parte del cosiddetto "Blue Wall". L’insieme, cioè, di quegli Stati considerati fino al 2016 delle roccaforti democratiche.
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È evidente che se Joe Biden volesse in qualche modo ribaltare l’esito delle elezioni rispetto al 2016 dovrebbe partire proprio dalla (ri)conquista di questi "collegi". Ebbene, tornando a quanto detto in avvio, rilanciamo la domanda: è vero che per la Clinton i risultati elettorali nei quattro Stati persi per pochi voti furono così disastrosi e, quindi, facilmente migliorabili? La risposta è no. E, anche qui, ci vengono in soccorso i dati.
In Florida, Hillary nel 2016 conquistò ben 4.504.975 voti. Obama, nel 2012, pur prevalendo su Romney, ne prese "soli" 4.235.270, circa 270mila meno della Clinton. A fare la differenza fu la "performance" di Donald Trump, che ne raccolse 4.617.886 contro i 4.162.081 di Romney nel 2012: quasi 450mila in più. Discorso analogo per la Pennsylvania, dove la Clinton "battè" Obama (2.926.441 voti contro 2.907.448) ma fu travolta dall’exploit di Trump (2.970.733 contro i 2.619.583 di Romney nel 2012).
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Al contrario, i Democratici possono legittimamente sperare in un riscatto sia in Michigan (la Clinton nel 2016 raccolse circa 290mila voti in meno rispetto a Obama nel 2012) che in Wisconsin (Hillary si ferò 230mila voti sotto il «livello Obama»). Tuttavia, sfortunatamente per Biden, sono anche i due Stati della quaterna che assegnano meno delegati: in tutto 26. Se fossero gli unici a cambiare colore, insomma, non sarebbero sufficienti a ribaltare l’esito delle Presidenziali, che vedrebbero Trump confermato alla Casa Bianca.
Per completezza di informazione va sottolineato come tutti i principali sondaggi diano Joe Biden in vantaggio in almeno tre di questi quattro Stati in bilico. L'unico in cui il candidato democratico sarebbe appaiato con Donald Trump è la Florida - che pesa tantissimo in termini di delegati - e già questo è un dato importante. Senza contare che la tendenza sembra essere quella di un recupero del presidente in carica e che i sondaggi quattro anni fa topparono clamorosamente dando per certa la vittoria di Hillary Clinton. Un errore che, a mio avviso, può essere stato determinato da due fattori: innanzitutto la tendenza a non svelare il proprio voto da parte di chi sostiene candidati "politically uncorrect" (gli elettori di Trump); in secondo luogo l'impossibilità di misurare un fenomeno determinante: i votanti dell'ultimo minuto. Quelli, cioè, che affrontano l'intera campagna elettorale da indecisi e si risvegliano di fronte alla chiamata alle armi del proprio fronte solo nel rush finale. Magari perché, pur se delusi dal presidente uscente, ritengono che fermare il "nemico" sia più importante.
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Quanto scritto non ha l’ambizione di essere esaustivo né di fornire indicazioni certe. Le variabili in campo sono infinite. Non è detto, ad esempio, che Stati con una lunga tradizione repubblicana non possano passare ai Democratici (in tanti in questi giorni stanno puntando i fari sul Texas, ben 38 delegati). Né che altri dei cosiddetti "swing State" (quelli che cambiano facilmente orientamento e determinano, in definitiva, il risultato delle elezioni, come l’Ohio) non possano tornare in discussione anche se nel 2016 lo scarto a favore di Trump fu piuttosto largo (proprio nell’Ohio l’attuale presidente prevalse con oltre 8 punti percentuali di vantaggio).
Né si può ignorare l’eventuale condizionamento dovuto agli "altri" candidati. A tal proposito le variabili sono davvero tante. Si può ipotizzare che tendenzialmente i candidati "verdi" tolgano voti ai Democratici mentre, magari, una scheggia impazzita come Kanye West potrebbe erodere il consenso di Trump. Ma non tutti gli "altri" concorrono in ognuno dei 50 Stati, il ché rende una previsione praticamente impossibile.
Ciò che si vuole segnalare, però, è come il successo di Trump nel 2016 sia stato legittimato da un consenso popolare travolgente, almeno negli Stati considerati decisivi per la Casa Bianca. E non da un flop di Hillary Clinton. Di conseguenza, più che aspettarsi un exploit di Joe Biden (peraltro non facilissimo, visto lo scarso carisma del candidato) i Democratici devono sperare in uno scollamento dell’elettorato Repubblicano dall’attuale presidente. In questo potrebbe sì incidere l’"effetto Coronavirus", che ha colpito profondamente l’elettorato più anziano, che nel 2016 in maggior parte votò per il magnate. Ma, al tempo stesso, il superamento in definitiva agevole della malattia da parte del presidente potrebbe suscitare consensi in quella parte della "working class" che ha giudicato eccessivi i vari "lockdown" imposti all’economia per arginare il virus.
Come che sia, a Trump basterebbe "tenersi" gli elettori del 2016 per rimanere alla Casa Bianca, al di là del risultato di Biden, che negli Stati “decisivi” difficilmente potrà raccogliere molti più voti di quelli ottenuti dalla Clinton nel 2016. Questo aiuta a comprendere meglio certe posizioni "elettorali" piuttosto estreme del presidente. Che non deve convincere gli "indecisi" o sedurre i "moderati". Ma semplicemente "galvanizzare" il suo popolo. Ci riuscirà? Lo sapremo tra poco più di dieci giorni.