la sfilata dei potenti
A Davos solita passerella senza decidere nulla
Oggi inizia a Davos l’annuale World economic forum con la partecipazione, quest’anno, anche di Donald Trump. Di consueto l’incontro sulla Montagna incantata di Thomas Mann si traduce in un esercizio non letterario come quello del grande scrittore tedesco, bensì di esposizione propagandistica da parte dei Grandi della terra. Del «forum», in effetti, nei mesi seguenti finora non è restato pressoché nulla. Questa volta i temi in discussione sono ambiziosissimi: dalla sostenibilità economica e ambientale, all’impiego dell’intelligenza artificiale, alla parità di genere e, in particolare, al ruolo della donna nel campo della finanza. I mutamenti ambientali, in genere gli eventi climatici estremi, come ha riconosciuto Larry Fink, il capo di BlackRock, la prima tra le società a livello mondiale nella gestione del risparmio, influiranno significativamente sulla finanza. Ne è consapevole la Commissione Ue che sta progettando il «Green deal» europeo, nonché la stessa Bce che si riproporrebbe l’obiettivo di valutare come i suddetti mutamenti possano impattare sulla politica monetaria. Ma nell’agenda di Davos vi è anche una riflessione sull’inadeguatezza di una visione del capitalismo, fin qui dominante, come volto esclusivamente, nell’impresa, a creare valore per gli azionisti: il cosiddetto «shareholder capitalism». A ciò si contrappone la visione che vede la creazione di valore come volta a tutti coloro che direttamente o indirettamente sono coinvolti nell’impresa insieme con gli azionisti; dunque, i dipendenti, i clienti, il territorio: il cosiddetto «stakeholder capitalism». L’argomento è stato oggetto diversi mesi fa di un manifesto di imprenditori americani che sollecita questa diversa visione da assumere nelle finalità e nell’agire dell’impresa. Insomma, si tratta di una concezione temperata del capitalismo non nuovissima, ma che tale appare quando se ne fanno promotori associazioni di imprenditori e quando viene considerata oggetto dell’attenzione di un «forum» quale quello in questione. Una tale concezione non ha nulla a che vedere con la liberalità. Essa prende atto delle strette interrelazioni che sussistono nel campo economico e ha ben presente che con un approccio non limitato alla teoria valoristica per gli azionisti i riverberi positivi, alla fine, scaturiscono anche per questi ultimi, forse meglio che da comportamenti mirati al loro esclusivo vantaggio. Include, una tale visione, i rapporti tra etica ed economia, nonché le relazioni tra lo Stato e il mercato. Naturalmente, si tratta di argomenti di alto livello che, proprio per questa ragione, possono sempre rischiare una torsione, in un convegno al quale prendono parte personaggi di primo piano, per trarre vantaggi in termini di immagine e di visibilità. Vedremo, quest’anno, con quale spirito saranno affrontati i temi in agenda. Sarebbe fondamentale, per evitare il consueto effetto-passerella, seguito da altrettanto consuete interviste, che almeno per ogni intervento propositivo che si compie siano indicate le modalità ritenute valide per l’attuazione; insomma, che si scenda nel concreto e negli impegni che, per la propria parte, gli oratori, soprattutto quelli investiti di poteri pubblici o di governo di grandi imprese, sono pronti ad assumersi. Non è trascurabile una sede di approfondimento di temi complessi. Tuttavia ora occorre spingersi con decisione più avanti, anche per separare il grano dal loglio, chi parla solo per la cura della propria immagine e chi è, invece, pronto ad assumersi le sue responsabilità. Il «forum» non dovrebbe essere un vacuo «certamen», ma, per la caratura dei soggetti istituzionali partecipanti, dovrebbe essere anche un’occasione per l’esplicitazione di impegni concreti, coerenti con gli argomenti affrontati.