Brexit, Westminster rinvia. Johnson a un bivio
Braccio di ferro fra governo e Camera dei comuni
Boris Johnson è nell'angolo e a mettercelo è stato un parlamentare del suo stesso partito, sir Oliver Letwin, uno dei 'ribellì tories che ora siedono ai Comuni nel gruppo degli indipendenti. Letwin, col suo emendamento approvato oggi con una maggioranza di 16 voti, ha di fatto bloccato il piano che il premier, un po' rocambolescamente, sperava di portare a termine oggi. L'emendamento, definito una sorta di nuova «polizza di assicurazione» per evitare il "no deal", ha vanificato quello che invece avrebbe dovuto essere il voto principale del "Super Saturday" in scena a Westminster: il voto sull'accordo per la Brexit, negoziato all'ultimo minuto tra Londra e Bruxelles. In base allo strettissimo calendario che scandisce le giornate parlamentari da qui al 31 ottobre, data della Brexit, l'accordo avrebbe dovuto essere approvato oggi, 19 ottobre, per evitare che scattasse la 'tagliolà del Benn Act. La cosiddetta "legge anti-no deal", approvata nelle scorse settimane dalle opposizioni col concorso dei deputati conservatori ribelli, obbligherebbe Johnson a chiedere a Bruxelles un rinvio della Brexit al 31 gennaio del 2020, se entro il 19 ottobre il governo non ottenesse l'approvazione di un accordo con la Ue, oppure un chiaro voto del Parlamento per procedere con il 'no deal'. L'emendamento presentato da Letwin - che pure si è detto a favore dell'accordo negoziato da Johnson - impone ora al governo di sottoporre l'accordo per la Brexit all'approvazione del Parlamento solamente 'dopò che sarà approvata tutta la relativa legislazione che incardina i termini dell'accordo nell'ordinamento britannico. Di fatto, un espediente per bloccare Johnson sulle Termopili del 19 ottobre e costringerlo a chiedere un rinvio della Brexit a Bruxelles. In buona sostanza, Letwin e tutte le opposizioni che hanno votato il suo emendamento non si sono fidati del premier (e delle divisioni interne ai Tories) temendo che in caso di bocciatura dell'accordo per la Brexit, si sarebbe comunque proceduto con un'uscita disordinata il 31 ottobre. Da notare che per l'approvazione dell'emendamento sono stati decisivi, ancora una volta, i ribelli Tories e, in questa occasione, anche i 10 deputati nordirlandesi del Democratic Unionist Party. Il Dup, del resto, aveva già annunciato la sua contrarietà all'accordo negoziato da Johnson e alla soluzione trovata per il confine irlandese. Per il premier, che da tre mesi ripete costantemente il mantra, «usciremo dalla Ue il 31 ottobre», in teoria non c'è via di uscita: o smentisce se stesso, o infrange la legge. Ed è su quest'ultimo punto che i pareri legali non sono unanimi. Johnson sostiene di «non essere obbligato» dalla legge a chiedere un rinvio della Brexit. Secondo un'altra corrente di pensiero, e dopo che lo stesso governo ha garantito davanti ai giudici della corte d'appello scozzese che la legge sarebbe stata rispettata, l'obbligo c'è. Addirittura, potrebbe essere lo speaker dei Comuni, John Bercow, detestatissimo da Johnson, a inviare la richiesta a Bruxelles per conto del governo, su richiesta di un giudice o della maggioranza dei Comuni. Fatto sta che il premier sembrerebbe voler procedere per un'altra strada. Dopo aver ritirato dal voto in programma oggi l'accordo sulla Brexit, il governo ha nuovamente calendarizzato il voto per lunedì, convinto di poter fare approvare il testo e procedere comunque a passo spedito verso la fatidica data del 31 ottobre. Ma il braccio di ferro tra Johnson e il Parlamento potrebbe riservare altre sorprese.