L'intervista

Parla il figlio del re dei narcos: "Vi racconto il vero Pablo Escobar"

Davide Di Santo

La sua prima reazione con la stampa dopo la morte del padre fu di rabbia: «Mi vendicherò. Li ucciderò tutti». Dopo dieci minuti riprese in mano il telefono, rimangiandosi tutto con i giornalisti. Ha un prima e un dopo la vita di Juan Pablo Escobar, 41 anni, primogenito del boss del Cartello di Medellin, il più potente e sanguinario narcotrafficante della storia: Pablo Escobar. Sebastián Marroquín, questo il nome preso dopo la morte de "El Patron", da qualche anno scrive libri e gira il mondo per dare la sua versione dei fatti. E lanciare un messaggio di pace. Il 21 settembre sarà a Roma, al teatro Brancaccio, con una conferenza-spettacolo dal titolo «Pablo Escobar. Una storia da non ripetere». «Quei dieci minuti, il 2 dicembre del 1993, sono stati i più importanti della mia vita. In quegli attimi ho immaginato cosa avrei dovuto fare per vendicare la morte di mio padre. Ho avuto terrore. Così ho deciso di iniziare un percorso di pace, l’unico modo per lasciarci alle spalle la guerra che abbiamo ereditato», racconta Marroquín a Il Tempo. Poco prima c’era stata l’ultima telefonata con suo padre, ormai braccato dalle forze speciali sui tetti di Medellin. Cosa le disse?  «La sua ultima chiamata aveva un doppio obiettivo. Apparentemente mi stava dettando le sue condizioni per la resa al governo colombiano. In realtà si è attardato volontariamente al telefono per farsi localizzare. Era davanti a un bivio: spararsi davanti ai suoi nemici, come è poi accaduto anche se le versioni ufficiali sostengono che sia stato ucciso dalla polizia. O continuare la latitanza condannando a morte la sua famiglia. Così ha fatto la sua scelta». Come ricorda la sua infanzia dorata nell’hacienda Napoles, il bunker di lusso dove vivevate? «Ho avuto come tate i peggiori criminali della storia. Ma di quella specie di Disneyland non restano che le rovine. In tutti i sensi. La gente ricorda gli animali esotici, le feste, il lusso. In realtà la guerra di mio padre allo Stato ha ridotto di molto il tempo in cui abbiamo potuto godere di quelle cose e del denaro». È mai stato ne La Catedral, il carcere "a 5 stelle" che Escobar costruì per se stesso dopo l’accordo per evitare l’estradizione? «Sì, molte volte. Anche 15 giorni di fila, per evitare che mi rapissero. Ero più sicuro lì che a Medellin. Nel momento stesso in cui mio padre costruì il "suo" carcere, dove sarebbe stato detenuto, aveva già progettato il piano per evadere, come poi avvenne. Entrava e usciva chi voleva, ricordo le partite di calcio con i giocatori della nazionale colombiana, come René Higuita e Leonel Àlvarez». Quando ha saputo chi era davvero suo padre? «A sette anni. Ha cominciato a dirmi, guardando il telegiornale: "Questa bomba l’ho fatta mettere io. Questo attentato l’ho ordinato io". Non riuscivo a colpevolizzarlo, con me era un padre affettuoso e amorevole». La chiamò "il mio figlio pacifista". Ha mai pensato di denunciarlo?  «Non lo avrei mai tradito, neanche per tutto il denaro del mondo. Lo amavo più di me stesso e avrei dato la mia vita per proteggerlo». Oggi prova lo stesso? «Qualche tempo fa avrei detto sì ma ora sto riconsiderando i miei sentimenti. Sto aiutando mia madre a scrivere le sue memorie, e recentemente sono venuto a conoscenza di fatti che mi stanno facendo rivalutare completamente l’idea che ho di lui come padre. Ma di questo, ora, non posso parlare». Dopo la morte di suo padre le è toccato trattare con i cartelli della droga rivali. «In realtà ci volevano morti. Ho incontrato i tre leader del cartello di Cali quando avevo appena 17 anni. Mi mandarono a chiamare annunciando che in quell’incontro mi avrebbero fatto fuori. Sapevo di essere praticamente già morto, così ci andai. Dissero che avrebbero lasciato in vita me e la mia famiglia in cambio di tutti i nostri soldi. E così fu. Anche se condannati alla povertà, abbiamo avuto salva la vita». Lei contesta la glorificazione del criminale Pablo Escobar fatta da serie come Narcos, eppure ha un’azienda che vende vestiti e t-shirt con il volto di suo padre. Non vede delle contraddizioni in questo? «Capisco le critiche, ma le immagini e i messaggi che ho usato hanno l’obiettivo di scoraggiare i giovani dall’intraprendere azioni criminali. Comunque in questo momento l'azienda è in pausa». Non pensa che i ragazzi la seguano perché attratti dal mondo dei narcos, e non per il suo messaggio di pace? «È vero, ricevo molti messaggi sui social network da parte di ragazzi, anche italiani, che vogliono diventare narcotrafficanti come mio padre. Ma è mia responsabilità utilizzare la mia storia affinché tutto questo non si ripeta».