Pensione con 41 anni di contribuzione. Durigon (Lega) anticipa il piano della nuova previdenza
Quota 41 anni di contribuzione per uscire dal lavoro prevedendo uno sconto alle donne con figli. Pensione di garanzia per i più giovani con un assegno pari a 1,5 volte il minimo previsto dalla legge. Cambio del paniere Istat per una rivalutazione che tenga conto del reale impatto inflattivo sulle somme erogate a chi esce dal lavoro. Il piano della Lega per cambiare la previdenza, prima che la riforma Fornero riemerga con la sua forza distruttiva, è pronto. Ad anticiparlo a Il Tempo è l’ex sottosegretario leghista, Claudio Durigon, padre della Quota 100.
Il tempo stringe. Senza intervento la legge del governo Monti, che ha spostato l’uscita a 67 anni tornerà in vigore il primo gennaio del 2023. Quale è la linea d’azione?
«Il timing è già definito. Il superamento di Quota 102 e la nuova normativa devono entrare nella legge di Stabilità. Le nostre proposte, contenute nel ddl che il ministro dell’economia Daniele Franco già conosce, devono essere messe dunque nel binario della sessione di bilancio».
Cosa proponete?
«La richiesta è la stessa fatta in sede di superamento della Quota 100. E cioè l’assegno pensionistico a chi ha 41 anni di contributi versati».
Non sarà facile farla passare così brutalmente. L’Europa su questo versante è matrigna. Come farete?
«Ci batteremo per introdurre il principio dei 41 anni. Poi la mediazione politica nella maggioranza e l’interlocuzione tra governo e Bruxelles potrà imporre condizioni e paletti. Questo fa parte del gioco. La cosa fondamentale è rottamare definitivamente la Fornero. E sancire una volta per tutte la soglia di contribuzione necessaria, i 41 anni, per lasciare il posto. Poi si possono introdurre correttivi per alcune categorie».
Ad esempio?
«La parificazione dell’età per l’assegno di anzianità tra uomo e donna non è giusta. Vorremmo inserire nella riforma lo sconto dei contributi a chi ha avuto figli, togliendo un anno ai 41 necessari per ogni ragazzo o ragazza».
Il problema è sempre quello della sostenibilità per le finanze pubbliche. Come se ne esce?
«L’impatto dei 41 anni non è invasivo sui conti. Innanzitutto non va dimenticato che, lentamente, il bacino di chi ha il conteggio con il retributivo, dunque più oneroso per le casse dello Stato, si sta esaurendo. Così l’uscita anticipata ha sempre un peso sempre meno rilevante sul bilancio pubblico. Le stime che circolano parlano, di un costo compreso tra 4,5 miliardi e sei tra il 2023 e il 2025. I dati precisi li ha l’Inps, i miei sono probabilmente spannometrici, ma non si discostano molto dalla realtà».
Ci sono altre vie percorribili oltre Quota 41?
«Le soluzioni proposte da altri sono praticabili ma in linea di principio non siamo d’accordo perché prevedono sempre una perdita economica troppo esagerata per il lavoratore. Nel campo della massima volontarietà, dunque per venire incontro alle esigenze personali, si potrebbe introdurre Quota 41 con il ricalcolo integrale con il sistema contributivo. O anche l’idea del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che prevede l’assegno a 62 anni solo per la parte maturata con la riforma Dini e l’intero importo, comprensivo della quota contributiva, a 67 anni. Sono tutte formule che si possono prevedere ma solo, ripeto, su base volontaria. La loro applicazione resterebbe residuale e un’opzione che il lavoratore potrebbe valutare e applicare solo se fosse interessato».
C’è un tema importante nel settore della previdenza. Ci saranno assegni pesanti per gli anziani contro giovani che li avranno da fame. Cosa propone?
«È un grande problema. Si parla di salario minimo ma nessuno ancora ha realmente compreso che presto si dovrà parlare di pensione minima, e sufficiente, per assicurare un’esistenza dignitosa ai giovani alle prese con una forte discontinuità lavorativa. Per loro i 41 anni di versamenti sono praticamente irraggiungibili».
Come se ne esce?
«Assicurando per legge un’integrazione a quanto si otterrà a fine vita lavorativa per erogare un importo pari a una volta e mezza l’assegno minimo. Se dopo 20 anni di contributi la somma erogata è sotto soglia va incrementata automaticamente. Oggi il trattamento base è 543 euro. Dunque se si matura una pensione sotto questo livello, cosa possibile per molti con gli attuali salari, chi la percepisce deve avere almeno 814 euro, ai valori di oggi ovviamente».
Il riscatto della laurea gratis proposto da Tridico può essere uno strumento per aiutarli?
«Ricomprendere gli anni universitari nella carriera di lavoro è sacrosanto. Ricordo che fummo io e Garavaglia a introdurre il riscatto agevolato per gli anni di studio dopo la riforma Dini. La nostra legge però, a fronte di un sacrificio economico non impossibile, ha comunque un piccolo effetto anche sulla misura dell’assegno. Consentire l’acquisizione di anni solo figurativi sarebbe utile per chi non ha lavorato molto ma dà risultati nulli in termini economici.
C’è il problema della rivalutazione pensionistica annuale che in tempi di bassa inflazione non è così pesante come oggi. Il prossimo anno lo Stato dovrà sborsare cifre importanti se il carovita resta così alto. Lo avete messo in conto?
«È un tema più ampio. Va ridisegnato il paniere dei beni considerati dall’Istat per calcolare il tasso di inflazione. Dovrebbe essere modulato anche per tener conto delle esigenze delle diverse fasce di popolazione. Gli anziani sono colpiti dal carovita in maniera differente rispetto ai giovani. Ma l’attuale calcolo non ne tiene conto. Si deve intervenire con nuove metodologie più aggiornate e precise. La tecnologia oggi può dare una mano in questo».
È considerato il padre di Quota 100 e 102. Anche loro andranno in soffitta. Che bilancio fa della misura?
«È stata una grande rivoluzione perché ha svuotato, con la massima volontarietà, un bacino di lavoratori bloccati dall’iniqua legge Fornero. Sono uscite circa 400 mila persone pari al 75% degli aventi diritto. Tre su quattro hanno approfittato. Molto di più dell’Ape social che si è fermata al 65%».
Scusi ma non erano preventivate le uscite di un milione di lavoratori. Qualcosa non torna.
«Troppa demagogia sui numeri. Il milione di cui parlavano le relazioni non erano le teste fisiche che avrebbero lasciato il lavoro. Ma il numero di pensioni complessive che, nei tre anni di vigenza, il Tesoro aveva messo in conto come costo aggiuntivo. Uso un paradosso. Se tutti gli aventi diritto fossero usciti insieme il primo giorno di applicazione della legge, il Mef avrebbe erogato per i tre anni previsti un milione di assegni. Così molti, erroneamente o dolosamente, hanno individuato nel milione le risorse lavorative che sarebbero complessivamente uscite. Ma i dati da confrontare, come spiegato, non sono omogenei perché alcune pensioni, anzi molte, sono state erogate alla fine dei tre anni. E il milione di assegni preventivati si è ridotto. Certo, poi qualcuno ha approfittato della confusione per attaccare l’efficacia della misura. Ma questa è un’altra storia».