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La riforma del fisco rischia di diventare una patrimoniale

Angelo De Mattia
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Come se finora non si fosse detto da quasi tutto lo schieramento di maggioranza che la riforma del fisco deve essere organica e riguardare l'intera gamma almeno delle principali imposte e tasse, torna invece, con una sorta di andamento carsico, l'ipotesi di una patrimoniale. Si muove dal giusto proposito del premier Mario Draghi di contrastare o almeno ridimensionare le disuguaglianze, acuite dalla pandemia, ma la cura che si propone, in alcuni interventi, è l'introduzione di una patrimoniale. Una imposta della specie, in presenza di un'evasione di 130-140 miliardi e di un sistema tributario che va sostanzialmente corretto, finirebbe con il far si che paghino solo i contribuenti che adempiono correttamente agli obblighi con il fisco, mentre si perpetuerebbe lo squilibrio tra costoro e quelli che evadono o eludono i doveri verso lo Stato.

Per di più, un'ipotesi quale quella prospettata trascurerebbe l'opportunità di collegarci alle interessanti proposte dell'amministrazione Biden, in particolare a proposito dell'introduzione di una «global minimum tax» sulle multinazionali dalla cui applicazione autorevoli esperti calcolano un possibile gettito per l'Italia di una decina di miliardi. Ancor più nell'attuale situazione, la sola evocazione della patrimoniale spaventa, perdurando gli impatti della pandemia (pur vigendo già imposte sul patrimonio, quale quella sugli immobili). Nel ceto medio e, in particolare, tra i numerosi contribuenti che non evadono, introdurre ora una tale imposta potrebbe significare aggravare una condizione resa più complicata dagli effetti del Covid-19.

Non parliamo, poi, dell'eventualità di una patrimoniale che fosse applicata ai depositi bancari la quale ricorderebbe quella, sciagurata, del 6 per mille introdotta dal Governo Amato nel 1992. Draghi, allora, era Direttore generale del Tesoro e certamente ricorderà gli impatti pesantissimi con fughe di capitali all'estero e grave disorientamento tra risparmiatori, investitori e operatori, perdita di fiducia nello Stato. Dovette essere la Banca d'Italia a rassicurare istituti di credito, risparmiatori e mercati, nonché a garantire in prima persona correttezza e trasparenza nell'operare. Tutto ciò non significa, ovviamente, ridimensionare il problema, effettivo e grave, delle disuguaglianze: tutt' altro.

Ma, a questo fine occorre agire impiegando in maniera coordinata le diverse leve all'uopo utilizzabili: dalla politica economica nazionale a quella europea innanzitutto in terna di welfare e giovani, a proposito della quale Draghi è intervenuto nel recente summit di Oporto, alla politica fiscale con la riforma da varare secondo il percorso tracciato e ispirata, innanzitutto, all'organicità, allo stesso ruolo (indiretto) della politica monetaria. Una efficace riforma tributaria che, come è stato detto, valorizzi la progressività e miri anche a una redistribuzione, pur senza dottare misure straordinarie, sarebbe uno strumento, benché non certo esaustivo, per contribuire al contrasto delle disuguaglianze.

La prima delle più gravi disparità resta l'evasione contro la quale bisogna impiegare tutti i mezzi ammessi. Disegnare un nuovo welfare e promuovere una lotta contro la povertà è un impegno fondamentale che, però, richiede il concorso di azioni a livello nazionale e a quello europeo. Vi è altresì il bisogno di una ampia convergenza delle forze politiche e sociali. Occorre, allora, evitare di far sorgere aspettative o di ingenerare preoccupazioni. Andrebbero abbandonate, valutazioni troppo rapide, corne è accaduto per gli elogi di qualche settimana fa rivolti dal Premier alla Libia «per i soccorsi in mare». Si sta vedendo ora come, invece, questa storia si sta sviluppando.

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