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I danni del blocco degli sfratti: avvantaggiano chi non è in regola con l'affitto

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Alessandro Giuli
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È da circa un anno che i cittadini italiani vivono una formidabile compressione delle libertà civili a causa dell'emergenza pandemica. Fra queste, oltre al protrarsi del coprifuoco e alle ben note limitazioni di spostamento, ce n'è una che rasenta la cronicizzazione incostituzionale: il blocco degli sfratti, imposto per decreto il 17 marzo 2020 e via via prorogato fino al 30 giugno 2021.

È un provvedimento nato con le migliori intenzioni, anzi tutto quella di garantire un tetto sopra la testa delle persone più colpite dagli effetti economici del coronavirus. E tuttavia, nella realizzazione pratica, si tratta di una scelta che mortifica il risparmio privato già tassato in forma abnorme in Italia e oggetto della concupiscenza sovietizzante dei politici che vagheggiano ulteriori imposte patrimoniali. Il fatto che il legislatore abbia previsto una forma di ristoro per il locatore che dimezza il canone di affitto, prevedendo un contributo a fondo perduto, non preserva chi l'affitto non lo riceve affatto e ormai da mesi.

Oltretutto la normativa d'emergenza ha interrotto anche gli sfratti giunti alla fase esecutiva prima della pandemia, e tutto de) a prescindere dal tenore di vita del locatario inadempiente. Fra gli effetti negativi della situazione, c'è il caso emblematico di una studentessa universitaria fuori sede che riusciva a pagare la pigione mensile grazie all'affitto di una sua piccola abitazione nel paese di provenienza: non ricevendo più soldi, ha dovuto abbandonare gli studi. Esistono altri episodi analoghi, denunciati dalle associazioni di categoria (in prima fila Confedilizia), che dimostrano come l'affitto di una casa di proprietà, più che a una rendita superflua, per numero si nuclei famiglia riafflitti dalla perdita di un lavoro corrisponda alla principale fonte di reddito. Non è così difficile comprendere che il blocco degli sfratti configura un'obliterazione di fatto dell'articolo 47 della Carta fondamentale, il quale recita così: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme...» e «favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione...».

Se la giurisprudenza contemporanea riconosce nel diritto alla casa un requisito fonda mentale di civiltà, tale diritto deve valere anche per chi esige di tornare in possesso del proprio immobile. Il ragionamento è confortato da un recente studio dell'Associazione italiana dei costituzionalisti (https://www.osservatorioaicitamages/rivista/pdf/2021_1_07_Ponzo.pdf) in cui si sottolinea come «la ra tio della disposizione, individuabile a prima vista nella tutela di soggetti e nuclei familiari che rischiano di non riuscire a conservare la propria abitazione per motivi collegati alla riduzione del reddito determinata dall'emergenza da Coronavi rus, sembra stridere con la sua applicazione generalizzata anche a beneficio di situazioni in cui la difficoltà a conservare l'abitazione non è determinata dalla pandemia, ma da altri ordini di ragioni».

Oltretutto, «l'isolamento forzato entro le mura domestiche.., ha evidenziato la necessità di disporre di una casa intesa non come semplice riparo, ma come un luogo ove plasmare ed esprimere la propria personalità, vivere dignitosamente formando una famiglia o partecipando, secondo le proprie aspirazioni, al progresso materiale e spirituale del Paese». Il che viene evidentemente negato a chi abbia subito un esproprio nella totale assenza di ristori pubblici, per via di misure «irrimediabilmente sbilanciate a svantaggio del diritto di proprietà costituzionalmente garantito». Il governo dei migliori non pue) far finta di niente.

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