l'altra emergenza
Coronavirus, altro che Cura Italia. Non è arrivato ancora un euro
Sono passati ormai quasi due settimane da quando Giuseppe Conte ha chiuso prima una parte del Centro Nord e poi tutta Italia. Da giorni milioni di commercianti, partite Iva, piccoli, medi e in qualche caso anche grandi imprenditori non stanno incassando nemmeno un euro, e per molti di loro non c'è stato nemmeno il rinvio delle scadenze fiscali. Negli ultimi giorni la stretta è stata più forte, sia per il nuovo decreto governativo che per i provvedimenti adottati a macchia di leopardo da Regioni e Comuni. Con ritardo colpevole c'è voluta una settimana per varare il primo intervento economico del governo che cercava di tamponare le ferite dell'economia. Sulla carta c'erano 25 miliardi di euro da spendere, che tutti sappiamo che valgono assai poco: ieri Confindustria ha valutato in 100 miliardi al mese la perdita di fatturato dell'Italia che lavora. Quei 25 miliardi compensano quindi appena una settimana. Ma una settimana è passata e di quei soldi non si è visto nemmeno un centesimo. Alle partite Iva e ai piccoli commercianti che sono i più sacrificati dalla chiusura imposta dal governo è stato fatto balenare in quel testo un aiutino di 600 euro che dovrebbe coprire i guai del mese di marzo. Meno della maggiore parte dei redditi di cittadinanza erogati. Seicento euro che dovrebbero bastare a chi anche non incassando nulla deve comunque pagare spese fisse da cui non sono stati sollevati (a cominciare dai dipendenti) e accantonare risorse per pagare tasse che nella migliore delle ipotesi sono state loro semplicemente rinviate di qualche settimana, non annullate. Non sono nemmeno stati aboliti gli studi di settore, che oggi sono semplicemente un'arma impropria e ingiustificata nelle mani del fisco e dovrebbero essere archiviati almeno per un paio di anni, fino a quando tutto il mondo non tornerà al momento precedente la pandemia. In sette giorni nessuno degli aventi diritto ha ricevuto quei 600 euro in tasca, che rappresentavano solo una minestra calda in tavola a pranzo e cena, nulla di più. Non è giusto che lo Stato si comporti così con i cittadini. Ha chiuso tutto, deve tamponare in tempo reale le ferite che i decreti della presidenza del Consiglio dei ministri hanno inferto a tutto il sistema produttivo. Perfino la Gran Bretagna che sembrava all'inizio minimizzare la portata del virus, e che ha più di un problema finanziario in seguito alla Brexit, nella notte fra venerdì e sabato ha varato un pacchetto di misure economiche che fa impallidire quelle balbettate dal governo italiano. Cito solo il “Coronavirus Job protection scheme” che emette un prestito pubblico a zero interessi per un anno per pagare l'80% dei salari (fino a 2.500 sterline al mese) di tutte le imprese che sono state chiuse per decisioni sanitarie del governo, retrodatando la misura alla data del primo marzo e per tre mesi. Il prestito è già operativo. Tutte le imprese senza distinzione in automatico possono differire il pagamento dell'Iva al 30 giugno prossimo. Per tutti gli autonomi il pagamento delle tasse è spostato al 31 gennaio 2021. Lascio perdere tutto il resto del pacchetto varato per l'emergenza con una raffica di prestiti pubblici senza interesse erogati a tutte le imprese con tetti parametrati al loro fatturato per non fare mancare loro la liquidità necessaria. Da un paio di giorni ci sono numeri sui contagi che fanno presumere una prima efficacia reale della decisione di chiudere progressivamente tutta l'Italia. Sono piccoli segnali che debbono essere confermati nei prossimi giorni, ma ci sono. Ma sul piano economico così non reggerà il Paese, che non ha proprio la possibilità di attendere per settimane la burocrazia per rendere effettivo il primo intervento e ha bisogno già ora di avere certezze sul mese di aprile che è alle porte. A questo appunto serve anche un primo annuncio, e poi un nuovo decreto entro la prossima settimana. La libertà portata via comunque ce la riprenderemo. Il lavoro e le imprese disintegrate in questo tempo purtroppo no.