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Il boom dei posti di lavoro? Purtroppo è una bufala

Il dossier smonta l'idea che le assunzioni siano in ripresa

Filippo Caleri
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Un Paese che non gode di ottima salute e nel quale le forti turbolenze internazionali hanno prodotto un indebolimento di consumi e investimenti. Che si aggiunge a una difficile situazione dei conti pubblici. L'analisi del Centro studi mercato del lavoro e contrattazione Lavoro&Welfare sull'economia italiana è impietosa. Anche perché la ricerca sfata il dato positivo dell'Istat sull'aumento dell'occupazione.  La lettura dei numeri in maniera approfondita rivela che a fronte di un incremento del numero dei lavoratori si registra una diminuzione della sua qualità che si concretizza in orari più corti e paghe medie orarie più basse. Il rapporto di L&W analizza diversi aspetti della congiuntura basandosi quasi esclusivamente sui dati Istat. Ecco nel dettaglio le principali evidenze raggiunte. IL PIL RALLENTA ANCORA Dopo la grave recessione intervenuta nel 2008, la lenta ripresa fino al 2013, il nuovo rallentamento del 2018 e l'aggravamento nei primi mesi del 2019, il quadro economico non fornisce ancora segnali di risveglio. Una tendenza negativa che continuerà nonostante le aspettative più ottimistiche sulla ripresa riportate dal Def 2019-2020 approvato dall'ex governo gialloverde. Il quadro descritto in quel documento è «ormai ritenuto ottimistico dalla maggior parte degli osservatori» spiega il report. Che attribuisce la ripresa degli anni passati alle politiche economiche dei precedenti esecutivi. In particolare il riavvio degli investimenti che ha riportato la crescita in positivo va ricollegato al Piano Industria 4.0 e ai superammortamenti previsti e non più rinnovati nella legge di Stabilità per il 2019. Strumenti che hanno rappresentato un valido sostegno per il rilancio ma non sufficienti a portare al Paese nella media europei.  PARADOSSO OCCUPAZIONE Se il Pil non cresce non si crea lavoro. Questo assunto è stato sempre dimostrato dalla pratica. Nel passato - ricorda il rapporto - si diceva che a 2,5 punti percentuali di Pil corrispondesse un punto percentuale di discesa della disoccupazione. Un regola non confermata invece nell'ultimo anno quando, alla crescita minima si è accompagnato un aumento dell'occupazione. Così nel 2018 si è tornati alla stesso tasso di occupazione di dieci anni prima e la disoccupazione si è abbassata. Una tendenza che sembra confermata anche dalle rilevazioni Istat nel 2019. Il dato a prima vista positivo nasconde una realtà del mercato del lavoro in grande trasformazione e con una riduzione dei salari. LA TRASFORMAZIONE I risultati vanno letti - spiega ancora il dossier - alla luce di evidenti trasformazioni del mercato del lavoro già in atto nel 2008 e progressivamente accelerate dalla crisi. Innanzitutto perché per l'Istat risulta occupato chi abbia svolto almeno un'ora di lavoro nella settimana. Dunque si considera al lavoro anche chi nei posti ci resta poco. In più la crisi del manifatturiero ha travasato dipendenti nei servizi che è il primo comparto che genera posti. Questo ha portato, nel 2018, a 4,3 milioni gli occupati a orario ridotto, un milione in più rispetto a dieci anni fa. Si tratta però di posti parcellizzati. Se si osserva il dato del Totale unità di lavoro standard che misurano le posizioni lavorative ricondotte a unità equivalenti a tempo pieno si rileva che questo numero è sceso dal 2008 al 2018 di quasi 900 mila unità. Il paradosso dunque si spiega con il fatto che mentre la statistica degli occupati registra un numero positivo, le ore complessivamente lavorate sono crollate. Nei dieci anni presi i considerazione sono rimaste per strada 1,7 miliardi di ore lavorate. Una riduzione che rende inconsistente la ripresa occupazionale vantata negli ultimi anni. Il report segnala che il minore monte ore di lavoro non è collegato all'uso della Cassa integrazione guadagni ma solo dalla diffusione orari ridotti e a impieghi a carattere discontinuo. SALARI IN DISCESA A mancare non è solo il lavoro ma anche il potere di acquisto nelle buste paga degli occupati. La ricerca spiega come la precarietà diffusa abbia ridotto i salari reali. Il nostro Paese ha presentato una crescita degli stipendi pari al 7,4% tra il 2000 e il 2009. Ma successivamente, tra il 2010 e il 2017 la riduzione del valore reale è stata del 4,3%. Così l'Italia si colloca in coda ai paesi Ue con retribuzioni inferiori alla media Ocse.  PIL AL PALO Il dossier segnala una drastica contrazione degli occupati nella manifattura italiana che oggi impiega quasi 4 milioni di persone, circa 650 mila in meno di quanto non fosse nel 2007. Un ridimensionamento ormai strutturale anche per la migrazione del lavoro verso i servizi nel rispetto di quello che accade nei paesi più avanzati. Così tra Il 2007 e il 2013 le ore lavorate nella manifattura sono scese del 21,1%. Un calo non compensato dal recupero del 3,3% tra il 2013 e il 2018. A portare giù la crescita industriale, soprattutto lo scorso anno, è stata la caduta della domanda interna non sufficientemente compensata dalla tenuta delle esportazioni.  LA CASSA INTEGRAZIONE Resta un indicatore importante dello stato di salute del ciclo economico. Dal 2012 al 2018 la Cig (cassa integrazione guadagni) è scesa da 1,13 milioni a di ore a circa 216mila con un calo dell'80%. Nel 2019 però la tendenza si è invertita con un aumento, nei primi otto mesi, del 13,56% pari a oltre 169 milioni di ore. Sei si tramutano le ore di cassa erogate in posti di lavoro a zero ore (fuori dal perimetro aziendale dunque) si determina un'assenza completa dal ciclo produttivo di 121 mila lavoratori. In totale sono state perse oltre 21 milioni di giornate lavorative. E nelle buste paga sono mancati quasi 700 milioni di euro al netto delle tasse.  LA CAUSE E LA RICETTA Ovviamente - spiega ancora la ricerca - sono anche i fattori internazionali a spiegare il rallentamento economico. Ma non solo. Alcune scelte politiche rischiano di accentuare i fattori recessivi. Tra questi il mancato rinnovo degli incentivi del piano industria 4.0, Una misura che introdotta con la legge di bilancio 2016 ha contribuito a fare degli investimenti una delle componenti più vitali della domanda interna. A frenare l'economia anche la depressione degli investimenti in costruzioni, frenati dal crollo della componente pubblica e in particolare di quella infrastrutturale. La ricetta resta quella di scelte oculate di politiche di rilancio economico, temendo presente le limitate risorse disponibili.

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