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Torna la speculazione e l'Europa precipita

Un operatore finanziario alla Borsa di Milano

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Ultime dai mercati: Piazza Affari è crollata di quasi il 5 per cento. Italia e Spagna sono tornate nel mirino della speculazione alla riapertura delle Borse dopo la pausa per Pasqua. I livelli del nostro Ftse Mib, il listino principale, sono più bassi adesso (14.892 punti) che ai tempi in cui Berlusconi diede le dimissioni sotto i cannoni dei "mercati (15.778 punti). La differenza però è nello spread fra Btp e Bund tedeschi che al tempo viaggiava attorno ai 530 punti base mentre oggi è più basso. E comunque ritornato a quota 400 punti base, sui livelli di fine gennaio, con un rendimento dei decennali italiani al 5,659 per cento. Il problema è che nel frattempo il mercato ha beneficiato di ben due magici Ltro (operazioni di rifinanziamento a lungo termine, ovvero una botta di liquidità arrivata dalla Banca Centrale Europea) che hanno creato una bolla speculativa rialzista sui nostri Titoli di Stato a bassa duration. Cosa è successo? Gli effetti della sbornia di liquidità sono già finiti? E con essi la luna di miele fra la finanza e Monti? I listini scontano le preoccupazioni legate al mercato del lavoro americano, il brusco calo dell'import cinese e l'allarme lanciato dal New York Times sulla forte esposizione delle banche italiane e spagnole sui rispettivi debiti sovrani, spiegano dai desk delle sale operative snocciolando le ragioni tecniche di quest'ultimo martedì nero delle Borse europee. Ma al di là del casinò dei listini, non vanno perse di vista le cause macroeconomiche che rischiano di trasformare l'Italia in un malato cronico, se non terminale. A cominciare dalle terribili performance del settore dei servizi e di quello delle costruzioni che ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre ultime fasi di "crescita-anemica" (come i nostri cugini spagnoli) e adesso fa i conti con una crisi strutturale. Ecco perché non è finita e il crollo di ieri non sarà l'ultimo. Soprattutto in Italia. E per dimostrare che non gufiamo ma siamo realisti, proviamo a fare un passo indietro. Il presidente del Consiglio ha ereditato il famigerato spread, ovvero il differenziale tra i Btp italiani e l'omologo bund decennale tedesco, a quota 500. Lo stesso Monti considerava la soglia di sicurezza intorno a 340 punti intendendo dire che rendimenti alti del tasso di interesse sui titoli di stato ce li possiamo permettere fino al 5%, non di più. Nelle ultime due settimane lo spread, invece, è risalito velocemente e l'allarme è scattato, visto che il rendimento attuale dei titoli si avvicina pericolosamente al 5,7 per cento. Del resto, bastava guardare con attenzione il cielo del mercato (senza farsi troppo distrarre da quello della politica) per rendersi conto che il vento stava virando di nuovo in burrasca non mancavano. Come il sensibile aumento negli scambi di Etf ribassisti a Piazza Affari. Si tratta di strumenti che replicano al contrario il paniere principale del listino milanese, permettendo di realizzare guadagni quando la Borsa scende. Segno che l'Eurozona di fiducia ne ispira ancora troppo poca. A casa nostra, anche coi tecnici al governo purtroppo a mancare è la svolta vera: meno spese per meno tasse. La spending review affidata a Piero Giarda si è persa nelle nebbie. Come la delega fiscale, affidata a Vittorio Grilli e Vieri Ceriani. Due venerdì fa i due fronti hanno litigato in Consiglio dei Ministri, appena Monti è partito per l'Asia, rinfacciandosi di tenersi nascoste l'un l'altro le bozze. E Grilli, l'indomani a Cernobbio, ha detto di non attendersi molto dal contenimento della spesa. Eppure, come fa notare Oscar Giannino sul suo Chicago Blog, tagliare molta spesa e abbassare di parecchio la pressione fiscale è possibile. Come dimostra l'esempio inglese: nel budget presentato il 21 marzo dal governo Cameron, la spesa pubblica complessiva passa dal 45,8% del Pil UK 2011 al 40,3% nel 2015, e i dipendenti pubblici diminuiranno non di 480mila unità come previsto ma di 730mila. In Italia, invece, anche i tagli ai trasferimenti alle Autonomie non hanno fatto diminuire la spesa pubblica che è passata dai 373 miliardi del 1990 agli oltre 800 miliardi attuali, rimanendo attestata a oltre il 50% del Pil. Si è trattato di meri contenimenti dell'andamento aggiuntivo della spesa. Intanto la pressione fiscale sta aumentando di 7 punti di Pil, dal 38% del 1990 andremo al 45% con le manovre Berlusconi-Monti. Le entrate pubbliche sono passate dal 41,8% del Pil nel 1990 al 47% e oltre. E il debito pubblico è triplicato, da 663 miliardi di euro nel 1990 agli attuali 1.930 miliardi. Da un governo tecnico e di emergenza, ci si aspettavano tagli veri, nell'ambito di 6-7 punti di Pil in un orizzonte tri o quadriennale. Da riversare integralmente in abbattimento della pressione fiscale, che invece - concentrata com'è su lavoro e impresa ammazza la crescita - e avvantaggia l'evasione. Al netto degli attacchi speculativi e delle crisi strutturali che affondano i listini europei, il punto non è quindi capire se la luna di miele fra Monti, i mercati e il Paese sia finita. Ma se sia mai davvero cominciata.

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