Le imprese straniere non saranno incentivate a investire in Italia
Non è proprio il caso di parlare di svolta storica a proposito del disegno di legge che conclude la prima fase della riforma del mercato del lavoro. Di svolte se ne intravvede una sola: all'indietro. La visione del lavoro che ispira questo provvedimento riporta le lancette della storia (quella stessa storia che nella conferenza stampa di mercoledì scorso è stata evocata con un autocompiacimento invero eccessivo) a ritroso di almeno vent'anni. Certo, non era facile cambiare davvero. La cultura giuslavoristica è, in larga prevalenza, tuttora ferma al secolo scorso: quella stessa cultura impegnata da decenni a muoversi in un empireo di diritti divenuti insostenibili per effetto della globalizzazione, che aveva isolato Marco Biagi ed osservato con sospetto e altezzosità accademica tutta la legislazione del lavoro ispirata al pensiero del professore bolognese assassinato dalle BR nel 2002. Ma non ci si poteva certo aspettare che, al momento della prova del fuoco, un esecutivo, in cui si sprecano i titoli accademici, le relazioni e le esperienze internazionali, i master, i dottorati e le pubblicazioni, esprimesse un'idea del mondo dell'impresa e del lavoro identica a quella che viene presentata nei talk show televisivi: un mondo fatto di imprenditori famelici e truffaldini e di lavoratori umiliati ed offesi, mortificati nei loro diritti, condannati – specie se giovani – ad una vita da precari, fino a rappresentare il c.d. precariato come uno status, quasi una classe sociale, alla stregua dello stereotipo del c.d. proletariato nel secolo scorso. Il problema di questa (mancata) riforma non sta nei bizantinismi di come viene definito il ruolo del giudice nel caso di licenziamento per motivi economici: se è abilitato a scegliere (come per il licenziamento disciplinare) tra ordinare il reintegro nel posto di lavoro o l'indennizzo oppure se tenuto soltanto a disporre la sanzione risarcitoria. Per settimane, sotto i riflettori di giornali e tv incapaci di guardare oltre il destino dell'articolo 18, si è sviluppato un dibattito in cui tutti – oves et boves et omnia pecora campi – si sono precipitati a dire la loro, ad organizzare scioperi, raccolta di firme, ordini del giorno vibranti e petizioni accorate, infilandosi in quello stretto pertugio rimasto aperto tra le proposte del Governo e le richieste del Pd (per conto della Cgil ?). Ma, veramente, esiste in Italia qualcuno, appena un po' informato di come funziona la giustizia del lavoro, disposto a credere che un giudice, dopo aver ritenuto ingiustificato un licenziamento individuale c.d. economico, non si sarebbe messo di puntiglio alla ricerca dei motivi effettivi del recesso, arrivando per suo conto a concludere che si trattava di un atto discriminatorio ? Eppure, persino la Confindustria – i cui distinguo sono invero tardivi – si era accontenta della (ovvero, di quanto previsto nel documento del 23 marzo) chiamata a nascondere la vergogna di un Governo che, sulla modifica dell'articolo 18, si accontentava di modesti segnali propagandistici da inviare ad un'Unione europea disposta a garantire - comunque e a prescindere - il suo sostegno (è ben strano che ogni atto della compagine di Mario Monti susciti sempre tanti entusiasmi a Bruxelles !). La danza macabra intorno all'articolo 18 - che nel frattempo si è trasformato da un logoro totem ad uno sdrucito spaventapasseri – non ha consentito di mettere adeguatamente in luce il punto debole di tutta la vicenda, che sta nello squilibrio con cui sono state poste in relazione tra loro le due grandi operazioni che la riforma avrebbe dovuto affrontare: garantire, mediante una minore rigidità in uscita dal rapporto di lavoro, l'avvio di un migliore quadro di tutele e di stabilità in entrata. E qui che la riforma auspicata diventa una controriforma reale: sulle tipologie del lavoro flessibile è calato un cono d'ombra di sospetto, di illiceità. Un'aura truffaldina da contrastare con una legislazione persecutoria, anche a costo di creare problemi alle imprese e di ostacolare l'occupazione a costo di ampliare le dimensioni del lavoro sommerso. Il Pdl, in extremis, è riuscito a corregger in parte questi limiti, che mettevano in imbarazzo persino il Pd. E, paradossalmente, il disegno di legge è migliore di quanto ci si poteva attendere dalla lettura del documento sulle linee guida. Nel corso della vicenda, il PdL ha commesso diversi errori, anche gravi. Credendo di mettere in difficoltà il Pd si è schierato con il Governo a difesa di quel falò di cose inutili che si stavano ammassando intorno all'articolo 18, arrivando persino a rivendicare che l'intero pacchetto, incluse le norme vessatorie in materia di assunzioni e di regole flessibili, venissero varate per decreto. Alla fine, il segretario Angelino Alfano ha avuto la lungimiranza di accorgersi che, per il suo partito, si aprivano ampi spazi di iniziativa nell'impedire, o almeno nel correggere, quanto si stava consumando, in nome della retorica del precariato, ai danni delle aziende e del lavoro. In conclusione, così come è, la riforma non solleciterà le imprese straniere ad investire in Italia, ma ne farà scappare parecchie di italiane. Se il Parlamento non troverà il coraggio di modificare profondamente questo provvedimento sul versante della flessibilità in entrata non vi sarà nuovo lavoro neppure se dovesse profilarsi un minimo di ripresa economica. Verrà a mancare tanto del lavoro che c'è.