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Non lasciamo un deserto ai nostri figli

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La riforma del Lavoro sembra aver imboccato la strada giusta sul piano politico, quello che mancava e rischiava di far saltare il governo. Il Pd strappa un affievolimento del licenziamento per motivi economici (sarà il giudice a valutarne la fondatezza), il Pdl e l'Udc portano a casa la stabilità del governo e la rottura tabù dell'articolo 18. Ora tutti si chiedono se la nuova disciplina avrà anche efficacia. Siamo sinceri, non è valutazione che si può fare adesso, perché le leggi sono importanti, ma alla fine è l'economia a fare l'economia e non bisogna dimenticare che non siamo soli nell'universo. L'Italia è inserita nel mercato europeo ma quello del lavoro è un settore globale e la manifattura si sposta dove si produce bene e a costi bassi. È un fenomeno irreversibile con il quale tutto l'Occidente sta facendo i conti. Negli Usa questo processo è guidato dall'innovazione tecnologica, in Europa prevalgono le riforme legislative, mentre in Estremo Oriente la deregulation è accompagnata dalla fortissima leva del basso costo del lavoro. Le multinazionali scelgono dove produrre sempre più indipendentemente dal mercato dove poi vendono i loro prodotti, le medie imprese spostano gli stabilimenti con meno velocità ma guardano a Paesi confinanti dove possono avere agevolazioni fiscali, le piccole cercano di primeggiare con la qualità della manifattura ma stentano a trovare un equilibrio soddisfacente tra costi e ricavi. Chi fa l'imprenditore sa che non esistono automatismi e soluzioni chiavi in mano, ma queste sono le tendenze e non sfugge a nessuno che l'asse della produzione si sta spostando a Oriente, mentre l'Europa stenta a trasformare il proprio modello e l'America sta producendo uno sforzo titanico per mantenere la leadership della ricerca tecnologica, creare posti di lavoro e ottenere l'indipendenza energetica, necessaria per abbattere i costi di produzione e non perdere il confronto con la Cina. Le aziende del nostro Paese navigano in questo gigantesco vortice e chi fa discendere la soluzione da formule giuridiche, rischia una strage delle illusioni nel giro di poco tempo. Per cui bisogna esser soddisfatti della svolta impressa da Mario Monti e Elsa Fornero alla riforma del lavoro, ma per capire la sfida e la posta in palio bisogna leggere con attenzione le parole pronunciate da Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ieri durante l'assemblea degli azionisti. Il nostro dibattito pubblico non ha ancora pienamente compreso che Fiat oggi è un gigante mondiale dell'auto, non una semplice fabbrica italiana con il quartier generale a Torino. Il mondo è cambiato, ma il Palazzo, l'establishment, non l'hanno ancora compreso. Fiat e Chrysler insieme sono il settimo gruppo automobilistico mondiale, hanno venduto quattro milioni di autoveicoli, procedono verso un'integrazione totale di una produzione allineata alla domanda del mercato. La relazione di Marchionne è un piccolo gioiello di geopolitica, individua le aree di crisi, tratteggia le opportunità e le incertezze. È una visione del mercato. In quelle pagine emergono le difficoltà dell'Europa e un grande malato, l'Italia, che non ha ancora colto il pericolo che corre: distruggere il lavoro e lasciare il deserto ai nostri figli.  

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