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L'asta dei titoli va in bianco Ungheria nitroglicerina d'Europa

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Mai perdere di vista la storia. Mai trascurare ciò che si muove negli umori profondi e nei rancori dell'Europa centro-orientale. Lì scoccarono le scintille e i pretesti per le due guerre mondiali. A Sarajevo, in Bosnia, l'attentato del 1914 contro l'arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie Sofia ad opera degli unionisti serbi, fornì il motivo per la discesa in armi dell'impero asburgico. Nel 1938 le mire di Hitler in Austria e Cecoslovacchia furono l'antipasto dell'invasione della Polonia e quindi della seconda guerra mondiale. Ora che i conflitti si combattono sui mercati globali, sale alla ribalta l'Ungheria del premier nazionalista Viktor Orban. Già leader del dissenso anticomunista, mosso da un forte sentimento nazionale e assai diffidente verso quello che chiama «l'assolutismo economico di Angela Merkel», Orban ha promosso una serie di misure per mettere sotto controllo i grandi centri di potere, dalla magistratura alla banca centrale. Per questo la destra liberista lo ha applaudito sul Wall Street Journal; al contrario i mercati europei, orbitanti intorno a Berlino e Francoforte, gliel'hanno giurata. Ieri l'Ungheria, che è nella Ue ma non nell'euro, ha cercato di collocare 45 miliardi di fiorini (140 milioni di euro) ad un anno al tasso del 9,96 per cento. L'asta è stata un flop, con il Tesoro costretto a ritirare 10 miliardi per mancanza di offerte. Di conseguenza Budapest rischia il default, chiede un prestito di 20 miliardi di euro al Fondo monetario e alla Bce, ma entrambi gli organismi non vogliono trattare con Orban. Il quale si difende accusando del dissesto il precedente governo di sinistra («Socialismo gulash!» ha tuonato di fronte a una gigantografia di Imre Nagy, l'eroe della rivolta antisovietica del 1956, impiccato dai russi nel '58), e stabilendo senza complimenti un parallelo tra gli imperialismi nazisti e comunisti del passato, e quello finanziario della Germania di oggi. La crisi ungherese si salda con il default sempre più probabile della Grecia, che uscirà dall'euro se non arrivano i prestiti europei: Atene non è in grado di onorare i 14 miliardi di bond da rimborsare a marzo. L'ennesima missione della troika Bce-Fmi-Ue è da settimane attesa inutilmente all'aeroporto Elefterios Venìzelos: un nome che a sua volta rappresenta una costante nella storia ellenica. Elefterios fu un politico che a fine Ottocento guidò la rivolta anti-ottomana; il suo lontano discendente Evangelos è il massiccio ministro delle Finanze e vice di Lucas Papademos, ex banchiere centrale e vicepresidente della Bce. Anche qui, dinastie che affondano le radici in una storia remota ma sempre tempestosa, e che oggi potrebbero decretare un drammatico showdown non solo per il sud-est europeo, ma per l'Europa stessa. Già, perché non è finita. Il nuovo governo conservatore spagnolo ha avviato una due diligence sui conti pubblici ereditati dai socialisti di Luis Zapatero: il deficit, che doveva essere del sei per cento, è invece all'otto. Il debito non si sa: il terrore è che si scopra un buco simile a quello di un anno e mezzo fa, appunto in Grecia. Intanto il premier Mariano Rajoy ha annunciato che il fabbisogno delle banche spagnole è salito a 50 miliardi di ricapitalizzazione. Il che ci porta al tonfo di ieri di piazza Affari: l'aumento di capitale di Unicredit per 7,5 miliardi ha infatti trascinato al ribasso la piazza milanese per quasi sei punti tra ieri e mercoledì. La banca di piazza Cordusio è tra l'altro esposta all'Est, Ungheria compresa. Nonostante le rassicurazioni, secondo un report di Bnp Paribas a Unicredit ed Intesa fanno capo oltre la metà dei 25 miliardi di euro che l'Italia ha investito a Budapest. Siamo insomma al solito drammatico girotondo di mercati e politica, nel quale non si riescono a separare le cause dagli effetti. Se per esempio la Grecia fosse stata salvata nel 2010, l'intervento sarebbe costato la metà dei 250 miliardi necessari adesso, e che nessuno intende sganciare. Se fosse stata lasciata fallire, il danno diretto stimato si sarebbe limitato a 50 miliardi; discorso diverso per l'esposizione delle banche francesi e tedesche, che allora era di 80 e 40 miliardi. Ma non avendo impugnato il bazooka, il virus non si può più isolare. La Spagna non può fallire, ancora meno l'Italia: ma nessuna istituzione mondiale ha neppure i capitali per salvare loro e noi. Di conseguenza siamo al bivio: o si trova una soluzione comune e concreta nei prossimi summit, oppure non resta altro scenario del break up dell'euro: una valuta forte riunita intorno alla Germania della Merkel, ed un euro-Sud con tutti gli altri. Scenario plausibile o fantafinanza? Ieri sera Mario Monti è partito all'improvviso per Bruxelles. Il premier, che ha nella capitale della Ue un appartamento, ha riunito gli sherpa italiani presso le istituzioni comunitarie – il rappresentante permanente Nello Feroci, il direttore dell'integrazione europea della Farnesina Raffaele Trombetta ed il capo delle relazioni internazionali del ministero dell'Economia Carlo Monticelli – per capire che cosa si sta davvero muovendo nelle cancellerie europee. In ballo non ci sono più solo le richieste italiane di ammorbidire la versione tedesca del nuovo patto sul debito (che ci costerebbe manovre da 45 miliardi l'anno), ma il futuro stesso della moneta unica. E dell'Europa. Da Bruxelles, Monti si trasferisce oggi a Parigi, dove incontra Nicolas Sarkozy. In Francia si vota ad aprile per le presidenziali, e l'allineamento al rigorismo tedesco può costare l'Eliseo a Sarkò, consegnandolo al socialista Francois Hollande. Lunedì 11 nuovo vertice Sarkozy-Merkel; due giorni dopo Merkel-Monti a Berlino. Giovedì 12 il capo del governo riferirà a Montecitorio. Tra il 23 e il 30 si terranno i vertici dei leader europei. Tutti vi arriveranno con un forte mal di testa: il 2012 rischia di essere l'anno non solo della recessione, ma anche della fine della moneta unica. C'è chi dice che la sola a riscuotere i dividendi di questa situazione sarà la Merkel: anche lei attesa, nel 2013, alle elezioni per la Cancelleria. Ma il panico sui mercati globali è incontrollabile nell'epoca della finanza mossa da algoritmi che comprano e vendono in automatico. I vincitori di oggi potrebbero pagare pegno domani, come è accaduto agli Usa reduci dagli anni d'oro della finanza clintoniana. Il bestseller di Robert Harris «The fear index» cita una famosa frase di Franklin Roosevelt durante la Grande Depressione: «La cosa che dobbiamo più temere è la paura, l'emozione umana più forte. Chi mai si sveglierebbe alle quattro del mattino perché si sente felice? La paura sta guidando il mondo come mai prima». Finzione letteraria? Forse: ma anche «Wall Street», quando è uscito nel 1987, era un film.

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