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La speculazione punta a deprezzare l'euro

Una macchinetta contabanconote euro

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È l'euro il vero obiettivo della speculazione internazionale. Non i governi europei e la loro presunta incapacità nel trovare ricette di sviluppo per l'economia di Eurolandia. Ieri è stato il giorno quasi della verità per testare la resistenza alle pressioni che mirano al suo deprezzamento. La moneta unica è scivolata sotto la soglia di 1,3 dollari a New York, toccando un valore di 1,2995, raggiungendo anche i minimi da 10 anni sullo yen. La speranza è che i fondi ad alto rischio che corrono da una parte all'altra del pianeta con la missione di arricchirsi senza pietà sulle debolezze delle economie puntino solo alla svalutazione della divisa unica. Non alla sua distruzione. Anche se qualcuno all'eliminazione della moneta europea ci ha già pensato. I giornali americani come il Wall Street Journal hanno parlato apertamente di banche centrali nazionali che si preparerebbero al ritorno delle vecchie valute mentre altre indiscrezioni, sempre smentite, parlano di una Germania pronta a far risorgere il sempre amato marco. Ma sarebbe un suicidio che porterebbe con sè troppe incognite. Le economie di oggi sono troppo collegate per non risentire di un'implosione del conio nato dal Trattato di Maastricht. I contraccolpi metterebbero a repentaglio le strutture finanziarie di economie già forti come quella statunitense ma anche di quelle in ascesa come la cinese. L'obiettivo dunque è quello di abbassare più semplicemente il valore dell'euro nei confronti del dollaro. In fondo quando nacque il cambio con la moneta statunitense era alla pari, uno dollaro per un euro. Nei mesi scorsi si era arrivati a quota 1,50. Poi la lenta discesa accompagnata da una forte resistenza al deprezzamento. Una linea imposta dalla Germania terrorizzata dal possibile ritorno dell'inflazione e che nella forza dell'euro ha rivisto quella del suo amato marco. Una scelta scellerata che ha bloccato lentamente, ma inesorabilmente le macchine dell'export europeo, prima quelle dei paesi più deboli come l'Italia e la Spagna. Ora anche quelle teutoniche. Eppure il cambio è sempre lì, vicino a quell'1,30 contro il dollaro che rappresenta un vessillo ideologico più che una reale rappresentazione del potenziale economico di Eurolandia. Il Vecchio Continente non ha un'economia che vale il 30% in più di quella americana. Dunque un euro così apprezzato non ha senso. Eppure resta lì. Rigido e immobile. Senza correzioni al ribasso in grado di tener conto delle disparità tra le diverse aree europee. Questo spiega in parte anche la mobilità degli spread dei titoli di stato nei confronti di quello tedesco. Data la fissità del cambio, l'unico punto del sistema nel quale si riflettono le diversità dei sistemi dei paesi Ue sono i rendimenti dei bond. Più alti per i partner più deboli come Grecia, Spagna e Italia. Non potendo la moneta assecondare le differenze, insomma, queste si scaricano sugli spread. Dunque la svalutazione, magari accompagnata e resa morbida e senza strappi, sarebbe la migliore medicina per un'Europa ormai ferma. Ma non si può fare. E la difesa a oltranza, diventata vessillo ideologico di Berlino, è il punto sul quale la speculazione preme. Ma la Merkel non cede. Dovrà farlo prima che il sistema trovi da solo le sue contromisure. Un segnale è l'accordo siglato qualche giorno fa tra Cina e Giappone sugli scambi commerciali nelle rispettive valute. Interpretato come un segnale di accantonamento del dollaro come valuta di riserva segna in realtà l'addio all'euro come sostituto, nello stesso ruolo, del biglietto verde.

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