L'Italia vale più del racconto dei declinisti
Stiamo vivendo un’era di crisi e transizione. I rapporti internazionali stanno mutando, il mondo della produzione - e con esso il lavoro - si sposta da Occidente a Oriente. La torta della ricchezza mondiale è da dividere con Paesi emergenti, Tigri e Pantere di un Nuovo Mondo che vive la sua rivoluzione industriale con un tasso di crescita e innovazione senza precedenti. In mezzo a questo mare in tempesta c’è l’Italia. A leggere le cronache, sembriamo un Paese alla deriva. La letteratura catastrofista descrive una nazione incapace di costruire il suo futuro, senza avvenire. Non mi sono mai piaciute le letture decliniste, servono a creare qualche star tra gli azzeccagarbugli dell’economia, qualche guru in quello dei futurologi, ma al netto delle seduzioni intellettuali, la realtà dei numeri nella sua inesorabile semplicità, mostra uno scenario diverso da quello percepito e diffuso dai media. Nel giorno in cui ci avviamo a un tour de force di emissioni di titoli di debito - venti miliardi nelle prossime 48 ore e circa cento nel primo trimestre del 2012 - è giusto ricordare che l’Italia è un Paese ricco e le sue famiglie hanno una capacità patrimoniale ineguagliabile. Banca d’Italia, dati sulla ricchezza delle famiglie italiane nel 2010: «Nel confronto internazionale le famiglie italiane mostrano un’elevata ricchezza, pari, nel 2009, a 8,3 volte il reddito disponibile, contro l’8 del Regno Unito, il 7,5 della Francia, il 7 del Giappone, il 5,5 del Canada e il 4,9 degli Stati Uniti. Esse risultano inoltre relativamente poco indebitate: l’ammontare dei debiti è pari all’82% del reddito disponibile (in Francia e in Germania è di circa il 100 per cento, negli Stati Uniti e in Giappone è del 130 per cento, nel Regno Unito del 170 per cento)». Non siamo nel campo delle opinioni, delle personali convinzioni, ma in quello della misurazione dei fatti economici. La realtà, come potete vedere, è diversa dalla narrazione a tinte fosche che ci presentano gli alfieri del tanto peggio tanto meglio, colmi di ipocrisia e incapaci di dare un senso e una visione all’Italia. C’è un problema di distribuzione della ricchezza, di lavoro e soprattutto di fiducia e capacità di produrre, creare e distribuire nuovi prodotti e servizi. Un sistema di regole archeoindustriale impedisce la nostra crescita, siamo un gigante economico affetto da nanismo aziendale. Un establishment cresciuto con il debito e la rendita non si preoccupa della missione del capitalismo: produrre ricchezza. L’era della privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite è finita da un pezzo. Loro restano sempre uguali. È ora di cambiare.