Sui fondi salva euro l'Ue si divide subito
Ancora un altro mezzo flop per l'Europa alle prese con la crisi dell'euro. La gravità della quale ancora non basta a mettere tutti d'accordo sul fatto che, o la soluzione è condivisa ed equamente distribuita tra i partner, oppure il problema si risolverà con la fine della moneta unica e dell'Europa unita. Così ieri ancora una volta si è registrata una distonia tra le intenzioni e le azioni. Alla zona Euro servivano 200 miliardi di euro per aumentare le risorse del Fondo monetario internazionale e indirettamente aiutare i Paesi dell'Euro in difficoltà. La teleconferenza tra i 13 ministri dell'Economia, poi allargata a tutti i 27 membri, ne ha trovati solo 150, l'Italia ne metterà 23,48, ma la Gran Bretagna ha subito detto no, refrattaria da sempre a qualunque mezzo, anche indiretto, per aiutare i suoi vicini della moneta unica. In fondo non smentendo mai l'asse con gli Usa che non vedono di buon occhio un cambiamento dei pesi all'interno del Fondo Monetario. Cosa inevitabile, se nell'organismo di Washington, venissero messi appunto miliardi aggiuntivi nella dotazione. E non è da dimenticare che il Fmi è già in mano alla francese Christine Lagarde. Un particolare non da poco per uno degli strumenti finanziari più importanti dell'economia globalizzata. Comunque l'Italia sarà il terzo maggiore contribuente mettendo a disposizione il 15,66% dei 150 miliardi totali, dopo la Germania che metterà 41,5 miliardi (27,67% del totale) e Parigi con 31,4 (20,94% del totale). Quarto contribuente la Spagna con 14,86 miliardi di euro, davanti all'Olanda con 13,61 miliardi. Il Belgio è sesto con 9,99 miliardi. Ma non saranno i soli: anche la Repubblica Ceca, la Danimarca, la Polonia e la Svezia hanno indicato la loro volontà di partecipare al rafforzamento del Fmi, ma per alcuni, come per la Svezia, è necessario sottoporre la questione ai Parlamenti nazionali prima di poter prendere una posizione. In ogni caso, secondo il presidente dell'Eurogruppo Jean Claude Juncker, sono i Paesi dell'Euro a dover dimostrare «una particolare responsabilità in questa circostanza». Intanto il presidente della Bce, Mario Draghi, nel suo intervento al Parlamento Ue ha espresso la prima certezza:«Dall'euro non si torna indietro». Un intervento preceduto dall'intervista pubblicata dal Financial Times sotto il titolo «Draghi mette in guardia sul crollo». Un titolo al quale il capo dell'Eurotower ha risposto senza lasciare spazio a interpretazioni: «Non ho alcun dubbio sulla forza dell'euro, sulla sua permanenza e sulla sua irreversibilità», aggiungendo che «molta gente fuori dell'aerea euro perde molto tempo con le speculazioni» ed «elaborando scenari catastrofici». Il messaggio di Draghi al Parlamento europeo è stato diverso. Intanto ha sottolineato che l'austerità è necessaria, ma deve essere accompagnata da misure per la crescita, per impedire che la inevitabile «contrazione a breve termine» si trasformi in «recessione a medio termine». Poi Draghi ha ricordato che bisogna ridurre il ricorso alle agenzie di rating, per le quali «serve un quadro chiaro e robusto» di norme per «ridurre la volatilità». In attesa dell'Unione di bilancio, la Bce sta comunque già «facendo tutto il possibile» contro il «credit crunch» che «colpirebbe le piccole e medie imprese e le famiglie». Non lo fa con una politica di «finanziamento monetario», ovvero stampando carta moneta come la Fed americana ma aprendo linee di credito alle banche. Resta chiaro che la necessità di ricapitalizzazione è «inevitabile», ma Draghi ha sottolineato «potranno procedere alla ricapitalizzazione» ma «senza l'incubo» degli stress test straordinari.