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Napolitano e Draghi danno l'"aiutino" al Cav

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Silvio Berlusconi ha capito di averla, di nuovo, sfangata quando Mario Draghi ha pronunciato queste parole: «La lettera d'intenti del governo a Bruxelles contiene un piano di riforme organico e coraggioso. Ora si tratta di attuarle con rapidità e concretezza». Era poco prima dell'ora di pranzo e il futuro presidente della Bce leggeva alla giornata mondiale del risparmio l'ultimo discorso ufficiale da governatore di Bankitalia. In quel momento Gianni Letta, che a palazzo Chigi si stava occupando dei dissesti di Pompei, si è scusato e ha percorso per l'ennesima volta i pochi metri fino a palazzo Grazioli. Negli stessi minuti un fitto scambio di e-mail tra la presidenza del Consiglio e la rappresentanza italiana presso la Commissione europea metteva a punto i dettagli della fatidica missiva. Con due richieste su tutte da parte Ue: affiancare all'elenco degli impegni un calendario preciso dalla loro approvazione (fissata al 15 novembre); accentuare il capitolo che riguarda la flessibilità del lavoro privato e introdurla nell'impiego pubblico. Negli stessi momenti Giorgio Napolitano, anche lui in Belgio per altri motivi, dichiarava: «Nessuno può governare senza assumersi la responsabilità di misure impopolari». Ovviamente l'endorsement chiave è stato quello di Draghi; anche perché l'ormai prossimo capo della Bce ha annunciato che l'Eurotower proseguirà gli acquisti di titoli pubblici italiani e spagnoli. Un segnale fondamentale, atteso dai mercati e anticipato da alcune banche europee e americane che hanno ripreso a comprare Btp. La Deutsche Bank, che ad agosto aveva ridotto da 8 a un miliardo l'esposizione sul tesoro italiano, negli ultimi giorni è risalita a 2,5 miliardi. Ed altrettanto avrebbe fatto la Goldman Sachs. Da parte loro gli sherpa della Commissione si affannavano a spiegare che cosa si intendeva per lettera d'intenti: «Non chiediamo una lista di misure da approvare entro le 18 di stasera, ma un capitolato dettagliato ed un timing con cifre precise». Insomma, una contrattazione preventiva punto per punto, ma anche un lavoro corale, una ragnatela che certo commissaria il Cav, ma lo tiene in piedi e soprattutto conferma due cose. La prima: se l'Italia non può perdere il paracadute europeo, neppure l'Europa può concedersi di abbandonare l'Italia. Non per altruismo, ma perché la crisi dei debiti sovrani e delle banche esposte su quei debiti diverrebbe ingestibile. Anche per Angela Merkel, che oltretutto deve, farsi autorizzare dal Bundestag ogni decisione che tocchi i contribuenti tedeschi. Basta del resto un dato: ai 780 miliardi tra capitali diretti e garanzie di cui dovrebbe essere munito il fondo salva-stati, l'Italia contribuisce per 139 miliardi. Ma poiché Irlanda, Portogallo e Grecia ricevono aiuti e sono esentati dal versare le loro quote, la capacità effettiva di pronto soccorso è di 440 miliardi, che scendono a poco più di 300 dopo i prestiti già erogati. Il fondo deve essere quindi continuamente ricapitalizzato. Se l'Italia passasse da Paese contributore ad assistito l'intera impalcatura, già traballante, andrebbe in default. E con essa franerebbero i paesi cosiddetti «core», Germania compresa. Fin qui il primo punto. Il secondo riguarda la politica italiana. Nelle ultime ore tutti abbiamo assistito al teatro tra Berlusconi e Bossi, quest'ultimo nei panni del Bertinotti padano. Ma dall'altra parte, il centrosinistra, non si scorge lo straccio di nessuno che possa attuare un programma come quello che emerge dalla lettera. Anzi, Bersani l'ha già bocciata. Non tanto per le pensioni a 67 anni (ci saremmo arrivati), quanto per la piena operatività data all'art. 8 del decreto di agosto, che prevede anche i licenziamenti «per motivi economici»: cioè per crisi aziendali. Un modello Marchionne su scala nazionale, con buona pace dei riti concertativi tra Confindustria e sindacato. O ancora per i 5 miliardi annui di dismissioni di asset statali e locali. Una cifra riassume tutto: dal 2009 al 2014 il governo si è impegnato ad una stretta di bilancio pari a 270 miliardi. La nostra classe dirigente è all'altezza di un impegno simile? Lo è la sinistra bersanian-vendoliana? Ma anche: la Lega vuole assumersi oppure no responsabilità di governo degne di quell'area geografica e sociale di cui rivendica la rappresentanza? Non ha torto il Carroccio quando ricorda che la Padania ha record europei di ricchezza e benessere: secondo Eurostat il Pil del triangolo Milano-Venezia-Bolzano è, nell'Europa a 27, paragonabile al Nord Reno-Vestfalia, superiore alla Baviera. Però lo stile dei governanti di Dusseldorf è un po' diverso da quello di via Bellerio. Non solo la politica, comunque. La Confindustria e i singoli imprenditori sono pronti a scelte coraggiose, oppure le loro virtù si esauriscono nei convegni? E il sindacato riformista – Cisl e Uil – intendono aggregarsi alla Cgil nelle prossime manifestazioni di piazza? Questi sono i veri temi che la lettera pone. Si tratta delle stesse cose già chieste ad agosto, e allora in gran parte disattese. Problemi che andrebbero visti non dal buco della serratura della politica italiana, ma alzando lo sguardo all'Europa. Per la quale l'Italia resta un caso minore, o anche un alibi alle debolezze di Sarkozy e Merkel: la vera questione del summit era e resta il futuro dell'euro, il meccanismo del fondo, il salvataggio delle banche, il taglio del debito greco. Pare che l'Europa, intera, e quindi anche noi, sia disposta ad accettare il sostegno di Cina e Usa. Una svolta. Le cose corrono più velocemente delle parole; cerchiamo di non restare nuovamente indietro.  

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