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L'Italia si mangia i risparmi

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Non andava così male da 11 anni. Si era appena affacciato il nuovo millennio e le paure sulla fine del mondo si accompagnavano a una situazione congiunturale negativa. Era il primo trimestre 2000, e l'Istat registrava l'11,1% rispetto alla «propensione al risparmio dei cittadini», che in parole povere vuol dire soldi in tasca. Oggi quel dato è stato superato, attestandosi all'11,3%. Le fredde comunicazioni dell'Istituto di statistica nazionale ci raccontano che «nel secondo trimestre è pari all'11,3%, in calo di 0,4 punti percentuali rispetto al trimestre precedente e di 1,2 punti percentuali rispetto al secondo trimestre 2010. La flessione congiunturale del tasso di risparmio - spiega l'Istat - è il risultato di una crescita del reddito disponibile (+0,5%) più contenuta rispetto alla dinamica della spesa per consumi finali (+0,9%) espressa in valori correnti. Ugualmente, rispetto al secondo trimestre del 2010, il reddito disponibile delle famiglie in valori correnti è aumentato del 2,3%, a fronte di una crescita del 3,7% della spesa per consumi finali». Le famiglie non risparmiano più, dunque, ma spendono. Dati contraddittori? No, perché la «propensione al risparmio» che gli italiani hanno avuto costantemente dal dopoguerra a oggi ha permesso loro di accumulare una qualche riserva. Il dato preoccupante è che oggi la gente sta mettendo mano proprio su quel «tesoretto» familiare che sta sparendo in tasse, gabelle (le tariffe dei servizi pubblici locali e delle utenze domestiche negli ultimi quattro anni sono aumentate del 6%) e il disperato tentativo di mantenere lo standard qualitativo di vita avuto fino a oggi. Standard che, però, scende inevitabilmente, se è vero come è vero - ed è sempre l'Istat a dircelo - che calano anche i consumi: il pane crolla dell'8,5% e il pesce del 4,8%, conferma la Confederazione italiana agricoltori. La domanda di carne rossa scende del 3,2% e quella di frutta del 2,7%. Non si salva neppure la pasta, che subisce una flessione dell'1,6%. Ma che gli italiani stiano «tirando la cinghia» è evidente anche dai dati relativi alle tipologie commerciali: sebbene perdano terreno tutti gli esercizi indistintamente - afferma la Cia - ad accusare di più i carrelli vuoti sono gli ipermercati, che registrano un calo di vendite del 2,7% tra gennaio e luglio. A tenere sono solo i discount, registrando un +0,9% nel primo semestre dell'anno. Il che però produce un effetto collaterale che mette in crisi l'economia «di strada»: precipitano del 9,2% gli acquisti nelle botteghe di quartiere. Calano anche i profitti delle società non finanziarie e l'occupazione nelle grandi imprese. «Tengono» solo alcuni prodotti tecnologici cult (telefonini e iPad) e quelli per la cura della persona, come creme e profumi. Diciamoci la verità: stiamo messi maluccio, ma non vogliamo che si veda.

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