In Borsa prezzi da saldi

A Piazza Affari è tempo di saldi. Anzi di più. I prezzi sono ormai da mercato rionale. Spiccioli. Anche i titoli delle big del listino sono diventati «penny stock», ovvero valgono meno di un caffè. I prezzi delle azioni delle banche hanno subito mediamente un ribasso del 50% rispetto al primo semestre 2011. Uno scenario che ricorda da vicino il crac Lehman Brothers del 2008. Per dare un'idea, tre anni fa, il titolo Unicredit scivolò poco sotto i 60 centesimi. Ieri è stato scambiato a 0,65. E lo stesso vale per Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi, Ubi Banca e Banco Popolare. Certo, la struttura proprietaria dei nostri intermediari non è molto contendibile, e forse questo è pure alla base della situazione attuale. Le banche spa hanno assetti di controllo dal più al meno stabilizzati, sia a Siena che a Milano. Le banche popolari hanno nella loro governance un significativo ostacolo alle acquisizioni. Ma non tutti i soci, sebbene storici come le Fondazioni, hanno abbastanza munizioni per difendersi da eventuali attacchi esterni rafforzando il patrimonio. Così come l'assetto organizzativo, vedi il caso della Bpm, può diventare anche un ostacolo alla crescita interna paralizzando le decisioni strategiche. Resta da capire, ora, se si verificherà un rimbalzo come successe nel 2008-2009. Lo scenario ai tempi del crac Lehman però era ben diverso. Allora il sistema bancario americano fu salvato dall'intervento massiccio degli Stati Uniti. E, anche se le nostre banche non fecero ricorso ad aiuti pubblici, le loro azioni presero fiato e si rimisero in carreggiata. Ora, in modo quasi speculare, sono gli stessi Usa a rendere instabili i mercati finanziari, poiché lo spettro di un default A dei debiti sovrani aleggia un po' in tutta Europa, Piigs in testa, con un'inevitabile conseguenza: tenere sotto pressione in Borsa le azioni delle banche con le casse piene di titoli di debito pubblico. Ma la svendita non risparmia neppure le big industriali del calibro di Fiat, o il colosso Enel, tantomeno le aziende del premier come Mediaset che in un anno ha bruciato quasi il 60 per cento del proprio valore. In ballo non c'è soltanto la contendibilità dell'azienda – ovvero se può diventare facile di possibili Opa o shopping di fondi sovrani a caccia di occasioni – ma anche il rischio di perdere il passo con i concorrenti di settore e dell'area geografica di riferimento. Rallentando così la ripresa quando la tempesta sarà passata. Abbiamo preso in esame le principali banche e società finite sotto la lente ( e in alcuni casi sotto la mannaia) delle agenzie di rating negli ultimi giorni. Abbiamo cercato di riassumerne le criticità oggettive che in molti casi non giustificano i drammatici ribassi dei rispettivi titoli quotati e il «falò» delle capitalizzazioni. Spesso (vedi il caso di Standard&Poor's) sono punite solo per il fatto di essere italiane, ovvero a seguito del taglio del giudizio sul nostro Paese. Declassate, marchiate da un rating che contribuisce a metterle in svendita, ovvero alla mercé di chi (magari un cavaliere arabo o un super «liquido» cinese) se le vuole portare a casa. Pagando meno di un caffè.