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Il soccorso giallo non serve al Paese

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Con tutto il rispetto: se Giulio Tremonti voleva stupire con effetti speciali, il primo colpo gli è andato male. Le indiscrezioni su un interesse della Cina per nostri titoli pubblici in cambio di quote di aziende pubbliche, Eni in primis non hanno portato bene al collocamento di Btp a cinque anni. I 3,86 miliardi sono stati sì sottoscritti, ma ad un rendimento del 5,6 per cento: e se guardiamo alla cedola del 4,15 dei Bot annuali di ieri, ciò significa che gli investitori, a torto o ragione, pretendono per i titoli italiani un premio pari o superiore a quello di un'obbligazione corporate con rating neppure troppo elevato, spesso di doppia o tripla B. Ma soprattutto, dopo la conferma tremontiana dell'incontro a Roma con il presidente della China Investment Corporation, Lou Jiwei, il secondo fondo sovrano cinese ha precisato che il summit, tenuto il 6 settembre alla presenza di altri esponenti del governo italiano, della Banca d'Italia e della Cassa depositi e prestiti, «non aveva l'obiettivo di esaminare eventuali acquisti di titoli di Stato ma possibili investimenti industriali». Forse Tremonti ha temuto che, dopo le dimissioni di Jurgen Stark, l'ultra-ortodosso rappresentante tedesco nel board della Bce, la banca centrale cominciasse e chiudere l'ombrello di protezione dei nostri Btp? Se questo era il motivo dell'enfasi data alle trattative con i cinesi, la mossa è risultata azzardata. Ma la paura, purtroppo, non era infondata: lo spread rispetto ai Bund tedeschi ha di nuovo sfondato i 400 punti, come prima degli interventi dell'Eurotower. Poi ha ripiegato: ma tutto lascia pensare che, come previsto, d'ora in poi il Tesoro italiano debba andare sempre più senza rete. Eppure questa vicenda, benché gestita in modo un po' avventuroso, non è campata in aria. Sono invece gli scenari che apre a non essere molto tranquillizzanti per l'Italia e per il governo. Innanzi tutto: la Cina non è affatto nuova ad investimenti in titoli pubblici italiani. Morgan Stanley calcola che, assieme ad altri fondi e banche asiatiche, ne abbia il sei per cento tra tutti quelli in circolazione. Più della Banca d'Italia (4 per cento). Se si ipotizzasse di spalmare la percentuale sull'intera massa circolante al 30 giugno scorso, pari a 1.582 miliardi di euro, si tratterebbe di 96 miliardi circa. Una cifra rilevante, ma distante dall'esposizione della Francia e della Germania, più o meno pari a quella della Gran Bretagna. In realtà la base di riferimento è inferiore: i fondi sovrani non investono in Bot, Cct e altri titoli a breve, quanto in Btp ed emissioni denominate in dollari destinate al mercato estero: si tratta di 1.200 miliardi, che portano il coinvolgimento cinese a una settantina di miliardi. Ciò che realmente sembra interessare alla China Investment Corporation è di acquisire quote nelle industrie energetiche italiane, per il 30 per cento in mano al Tesoro, oppure nelle banche. Entrambe si possono del resto teoricamente comprare a saldo: poco più di 14 miliardi è la capitalizzazione di Intesa, poco più di 15 quella di Unicredit. Ma non è questo l'obiettivo strategico della Cina; semmai nelle banche è possibile qualche investimento minore. A fine agosto ha fatto scalpore che Huang Nubo, 161mo uomo più ricco cinese, abbia lanciato un'offerta da sei milioni di euro per acquistare una fetta non indifferente dell'Islanda: 300 kilometri quadri, lo 0,3 per cento di tutta l'isola. In realtà la notizia vera era un'altra: l'accordo tra governo islandese (cioè del primo e finora unico stato europeo andato in default), Enex Kina e Sinopec Star Petroleum che assicurerebbe a Pechino lo sfruttamento del 70 per cento dei diritti petroliferi lungo le coste artiche. Quindi è più che probabile che la Cic punti all'Eni o all'Enel, e ancora di più ai contratti della prima nel petrolio e nel gas: dalla Russia al Nord Africa, il gruppo di Paolo Scaroni è il vero hub energetico del Sud Europa, in feroce concorrenza con i francesi. Ma l'intero ammontare della quota Eni in mano al Tesoro è di 21 miliardi, e non è pensabile che il governo intenda cederla. Una partecipazione minoritaria cinese, accompagnata da golden share e garanzie di ferro per i nostri interessi strategici, è però possibile. Stesso discorso per parte degli 11 miliardi di quota pubblica dell'Enel e forse dei 36 delle Ferrovie. Abbiamo scritto e riscritto che il coltello dalla parte del manico ce l'hanno le economie emergenti, in particolare la Cina, e quel coltello è puntato alla gola dell'Occidente e dell'Europa soprattutto. Tuttavia con i suoi pur cospicui 200 miliardi di dollari di riserve – una porzione dei 3.200 miliardi di surplus commerciale cinese – la Cic potrebbe, destinandone una parte all'Italia, fare un ricco shopping; ma evidentemente non risolverebbe i problemi del debito pubblico italiano. E poiché si sta sempre più diffondendo, anche nel centrodestra, l'idea che il vero problema del Paese sia il debito, e non il deficit (al quale invece, su input europeo, sono state finora dedicate gran parte delle attenzioni), ecco che si prospettano scenari altrettanto drastici. Se davvero si vuole portare il rapporto tra debito e Pil intorno a quota cento occorre tagliare e dismettere per 3-400 miliardi. Tutto il blocco di aziende in mano al Tesoro, dalle Poste all'Eni, se venisse venduto interamente, ne vale poco più di cento. Non basterebbe, e comunque ipotesi impossibile. Qualcuno ogni tanto punta alle riserve d'oro della Banca d'Italia, circa 2.500 tonnellate, le terze del mondo. Ai massimi attuali valgono sui cento miliardi: ma senza di quelle, se l'Italia uscisse dall'euro o si trovasse in serie B, la nostra moneta non disporrebbe della minima difesa. In ogni caso la maxi-operazione di abbattimento del debito, benché trovi proseliti nel Pdl, sarebbe difficilmente gestibile con Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. E forse è proprio al Cavaliere che mira qualcuno: non solo nelle Procure ma anche nei mercati internazionali e nell'establishment europeo. Un rischio contro il quale non basterà il soccorso giallo.

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