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Anche il Financial Times con i ricchi Fanno bene a ribellarsi contro le tasse

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Il Financial Times segue l'onda lunga della storia, riuscendo così a dettare l'agenda politica del presente. Il presente come storia, per citare lo storico ed economista marxista americano Paul Sweezy. Gutta cavat lapidem? Sì, perché il mese scorso, nel gorgo trionfante della calura, è stata la volta di Marx e del marxismo. L'ultimo saggio dello storico marxista Hobsbawn è stato recensito da Francis Wheen, brillante pubblicista e saggista laburista dell'ala più radicale, e l'operazione non ha niente di singolare o stupefacente. Oggi, in piena ignoranza da fine impero, l'operazione può apparire confusa e contraddittoria, ma così non è. Anzi. Marx è sempre stato uno squisito apologeta del "modo di produzione capitalistico", di cui celebrava le crisi e le oggettive ed utilissime contraddizioni. Tutti lo ignorano, o quasi, ripeto, anche a sinistra (il Pd è di fatto un partito radicale di massa): ma il FT lo sa. Il che non è banale. Non solo per l'autorevolezza della testata, ma anche per la densità oggettiva della questione. La quale, in termini sommari, può essere così sintetizzata: la ricchezza deve, dunque, essere ripensata, seguendo certi termini classici, ossia storici e sistemici. Non stiamo parlando soltanto del denaro, secondo i lineamenti della ricerca sociologica, antropologica e sociologica, si pensi all'opera geniale del sociologo e filosofo tedesco Simmel. Il nodo è oggettivo, materiale e comporta un punto di vista non rozzamente materialistico. Tradotto: la ricchezza, i soldi, il denaro sono fattori sistemici in grado di riprodurre le condizioni materiali di sviluppo di una civiltà. Sono fattori strategici che esigono una politica che non sia solo "governance". Dunque, in gioco è inevitabilmente l'agire della politica come intelligenza della ratio del sistema socioeconomico ed azione efficace orientata ad uno scopo. E ciò perché la ricchezza oggettivamente trascina tutto: il potere, la politica e la libertà. Di conseguenza, occorre una risposta politica all'altezza di questa dinamica globale. "Follow the money" è il principio: la libertà è legata al denaro. Non è la filigrana di un'inchiesta giornalistica al fulmicotone come quella sul Watergate, che segnò l'apogeo della formula richiamata. È molto di più, è come una movenza che costringe a stare sulle cose, mentre la realtà si svolge in tutta la sua complessità. Approfondendo un po', in prima battuta: il potere, in una sana democrazia, deve essere legato al denaro. Anche lo Stato deve essere legato al denaro. Allora, il cerchio si chiude, per poi riaprirsi. Ovvero: ragionare crudamente di debito pubblico e tasse, azionando dispositivi di vari genere e misura, fa respirare la democrazia, perché ne assicura, di fatto e di diritto, la sostenibilità materiale. Altrimenti, addio Stato, Welfare, benessere e investimenti. Ecco, l'articolo di John Plender, che preconizza la robusta rivolta dei ricchi, insofferenti nei confronti di carichi fiscali di mole leviatanica, fa il paio con la Marx renaissance. Stesso oggetto: il modo di produzione capitalistico. In gioco sono le contraddizioni attuali del capitalismo. Si tratta della struttura mobile del capitalismo in quanto "modo di produzione" (non astratta metafisica, teoria dei giochi, contrattualistica giuridica, etc.), cioè storia e movimento. I ricchi non vogliono pagare tasse elevatissime allo Stato come se il contratto giuridico fosse l'ultima thule del capitalismo. Essi vivono più a confronto con lo spazio che con il tempo della vecchia politica statale. Tutto è "mobile" o "volatile", come scriveva Marx. Gli Stati sono macchine da guerra bismarckiane; il capitalismo postmoderno agguanta, invece, ogni occasione e ne estrae ricchezza pura. Il capitalismo ha/è una storia, ma questa storia, nel vissuto concreto degli agenti del "modo di produzione" capitalistico, deve essere tradotta in spazio, in geo-economia, in mobilità permanente. La rivolta dei ricchi è legittima perché necessaria. Al diavolo Buffet! I soldi che girano creano la forma socioeconomica dell'agorà.   Ecco il nesso con la politica. Gli Stati possono ridiventare protagonisti facendo pagare meno tasse ai ricchi e, parallelamente, chiedendo loro un trade-off positivo di ritorno: sei libero, favorisci la libertà di tutti. Conviene a tutti, dunque anche a te. Salta tutto, allora? Si crea certamente una dialettica tra statualità e produzione di ricchezza, ma si tratta di una dialettica necessaria. Chi produce ricchezza non vuole né Stati pasciuti a spese altrui, né banchieri parassiti e ingordi. È la civiltà dei (veri) proprietari. Una rivolta silenziosa e non chiassosa come quelle classiche. Potere di pressione per uscire dalla depressione. Le crisi cicliche creano queste condizioni oggettive. Il FT lo sa. Ormai l'Eurozona deve ripensarsi. Siamo ancora nella corteccia prefrontale della concezione-tempo: tutto è storia, tempo, Stato. La "rivolta di massa dei ricchi" è la contraddizione oggettiva di un sistema malato. Usiamola strategicamente. Poi tutto tornerà a nuovo ordine, si legga alla voce "politica".

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