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Germania ingrata. Merkel senza memoria

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Il canceliere tedesco Merkel

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Ogni studente di economia sa che la Germania ha tra i fondamenti della costituzione la stabilità monetaria e la lotta all'inflazione. Frutto, anche questo è noto, della svalutazione a sei cifre del marco durante la repubblica di Weimar.  Il più studiato è l'articolo 115, che afferma: «Le entrate provenienti dal credito non possono superare la somma delle spese previste nel bilancio per gli investimenti». Vincolo esteso allo statuto della Bundesbank, la banca federale, e da essa imposto all'Europa prima con i parametri di Maastricht (dove il tetto all'inflazione di ogni paese è fissato al 3 per cento, pena sanzioni economiche), poi alla Bce, che continua a fissare la propria bussola sul contenimento dei prezzi prima ancora che sullo sviluppo. Difatti mentre le altre banche centrali dell'Occidente continuano a tenere i tassi a zero, l'Eurotower di Francoforte li ha già riportati all'1,5 per cento, con minaccia di ulteriori rialzi. E ora Angela Merkel, cui si è accodato Nicolas Sarkozy, chiede a tutta l'Europa di adottare il pareggio costituzionale di bilancio e pesanti manovre di austerity. Non solo. Sul Sole 24 Ore l'economista Luigi Zingales ha ricordato come per convincere i tedeschi ad abbandonare il marco a favore dell'euro il governo di Berlino pretese due condizioni: «1) La Banca centrale europea sarà altrettanto brava della Bundesbank nel tenere l'inflazione sotto controllo; 2) la Germania non dovrà mai intervenire per salvare altri paesi». Ed è appellandosi a queste condizioni giugulatorie che Angela Merkel insiste nei suoi «nein»: no al decollo del piano di salvataggio della Grecia, benché sia passato oltre un anno; no agli eurobond; no a qualsiasi altra cosa possa urtare la sensibilità finanziaria dei contribuenti-elettori di là dal Reno. Giusto? Forse: se la Germania avesse a sua volta la coscienza a posto in fatto di dare e avere. Ma se guardiamo alla storia, da quella tragica della Seconda guerra mondiale, a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, agli anni più recenti della caduta del Muro di Berlino, e fino ai giorni d'oggi, scopriamo che non è proprio così. La Germania ha avuto dal mondo, Occidente in particolare, molto più di ciò che ha dato e di quel che pretende adesso. E di questo non c'è traccia né nella sua Costituzione né tantomeno nella sua «constituency», quel codice magari non scritto che è alla base della condotta e delle tradizioni dei paesi avanzati. Non parliamo dei sei milioni di morti che la follia hitleriana causò nei campi di sterminio: non è il caso di far ricadere su figli e nipoti le colpe dei padri o dei nonni. Si può però far riferimento al costo economico della Seconda guerra mondiale, che certamente ebbe nella Germania la sua causa: di recente il Congressional research service americano lo ha quantificato in 5 trilioni di dollari senza tener conto dell'inflazione. Si tratta cioè di 5 mila miliardi di dollari che aggiornata ai giorni nostri è pari, grosso modo, a metà del Pil mondiale di 74 mila miliardi. Sconfitto il nazismo, gli americani vararono poi il piano Marshall da 22 miliardi di dollari che permise all'Europa sconfitta, tedeschi su tutti, di rimettersi in piedi mentre dall'altra parte si alzava la cortina di ferro. Non tutto filò liscio: la Francia chiese che la Germania fosse esclusa dagli aiuti proprio per la sua responsabilità nella guerra. Alla fine il presidente Usa, Harry Truman, si impuntò, fece digerire il piano all'opinione pubblica americana – non meno insensibile al portafoglio di quella tedesca di oggi – e altrettanto fecero inglesi, canadesi, australiani, svizzeri, norvegesi, svedesi, perfino spagnoli. La Germania ebbe 1,5 miliardi di dollari di aiuti, più dell'Italia, un po' meno della Francia. Ma a questo sussidio d'emergenza che terminò nel 1951 si aggiunsero i costi per l'Occidente (Usa, Francia e Gran Bretagna) dell'occupazione di Berlino e della tutela della Germania Ovest. Il solo ponte aereo con cui gli americani scongiurarono che i berlinesi morissero di fame e freddo per il blocco imposto nel 1948 da Stalin fu un regalo tanto generoso quanto gigantesco: ogni tonnellata di carbone venduta a Berlino al prezzo politico di 21 dollari, ne costava 150 agli Stati Uniti. Alla fine le tonnellate furono 1,5 milioni, mentre quelle di cibo raggiunsero i 2,4 milioni. La più grande e costosa operazione umanitaria della storia. Non è tutto. L'ombrello militare occidentale e americano permise ai tedeschi di dedicarsi in tutta tranquillità al proprio boom economico. Nessuno ha mai calcolato quanto sarebbe costato alla Germania difendersi da sola contro le mire sovietiche, e del resto l'interesse strategico era anche degli Usa. Si sa però che la spesa militare cumulata è la causa principale dei 14.400 miliardi di dollari di debito pubblico Usa, che ha provocato il downgrading di Standard & Poor's e innescato buona parte dell'attuale rischio di recessione globale. Ma anche i tedeschi ci hanno messo del loro. La riunificazione del 3 ottobre 1990, dopo un anno dal crollo del Muro, è giustamente considerato un capolavoro strategico e di lungimiranza del governo allora guidato da Helmut Kohl. Il suo costo è stato però stimato dalla Freie Universitat Berlin in 1.500 miliardi di euro dell'epoca, una cifra allora superiore al debito pubblico tedesco che adesso sfiora i 2.100 miliardi. La parità tra marco occidentale e orientale, voluta per motivi politici, si tradusse in un crollo di competitività dell'industria tedesca, che a sua volta provocò una recessione che dalla Germania si estese a tutta Europa, Italia compresa. A tutt'oggi Berlino eroga ai territori della ex Germania Est un trasferimento speciale di 100 miliardi di euro l'anno in conto «ricostruzione»: il doppio dei sacrifici imposti in questi giorni all'Italia. E siamo ai giorni nostri. La Merkel sostiene che il salvataggio dei paesi europei a rischio si risolve con il rigore e non può essere pagato dai contribuenti tedeschi. Tanto che le rigorosissime banche di Francoforte, tipo la Deutsche Bank, hanno venduto a piene mani Btp italiani. Bene: ma qual è l'esposizione di queste banche teutoniche nei paesi maggiormente a rischio e declassati dalle agenzie di rating? Secondo la Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, si tratta di 65,4 miliardi di dollari verso la Grecia, 186,4 verso l'Irlanda, 44,3 verso il Portogallo, 216,6 verso la Spagna. Totale, 512,7 miliardi che il sistema finanziario tedesco ha «investito» nei Pigs. Cifra che si confronta con i 410 miliardi delle banche francesi, i 370 di quelle inglesi, i 76 di quelle italiane. Il risultato è che tra le dieci banche europee che fanno più ricorso alla famigerata leva finanziaria (che cioè contabilizzano maggiori crediti e capitale speculativo in rapporto al patrimonio) ben quattro sono tedesche: la Commerzbank, che occupa la prima posizione assoluta con una leva del 76,91 per cento, e poi la Berlin Landesbank, la Deutsche e la Deutsche Postban. Nessuna banca italiana figura in questa top ten. Nessun altro paese vede esposto il proprio sistema creditizio quanto la Germania. A questo punto la domanda è ovvia. Il rigore – giusto, per carità, e tanto più in un paese indebitato come l'Italia – imposto all'Europa dalla Cancelleria e dalla Bundesbank, serve a salvare gli stati o le banche? Soprattutto quelle di Francoforte e dintorni? Curiosità ancora più legittima se andiamo a guardare chi in questi mesi ha fatto più ricorso ai crediti della Bce. Ebbene, tra marzo e giugno 2011 il Tesoro e le banche tedesche hanno bussato alla porta dell'Eurotower per 247 miliardi di dollari, la Francia per 79, l'Italia per 149, la Spagna per 197. Soltanto a luglio l'Italia con altri 80 miliardi, ha portano il nostro conto a quota 229: ancora meno, comunque, della Germania. Insomma: mentre i rappresentanti tedeschi nel board della Banca centrale si opponevano al soccorso ai nostri Btp, salvo pretendere condizioni durissime, Berlino e Francoforte ottenevano crediti in abbondanza. D'accordo, loro hanno la tripla A: ma forse premia più la finanza che la riconoscenza, o la memoria.

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