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La disunione monetaria

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All'interno dell'area euro esistono gravi squilibri. Le manovre, pur necessarie per evitare il collasso della Grecia, Portogallo ed Irlanda e per creare meccanismi per fronteggiare nuove crisi (il Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria e dal 2013 il Meccanismo di Stabilità Finanziaria) non sono sufficienti a fronteggiare l'instabilità dei mercati. Il MSF ha una dotazione di «solo» 440 mld. di euro, rispetto agli almeno 2.000 necessari. Inoltre, tali istituzioni, pur rafforzando la solidarietà «federale» europea, non possono correggere gli squilibri esistenti. Questi ultimi derivano dalla superiore competitività tedesca (negli ultimi 12 mesi la Germania ha registrato un avanzo commerciale maggiore di quello della Cina) e degli Stati germanizzati economicamente, rispetto ai PIGS o PIIGS, cioè tra le «formiche» e le «cicale» dell'area euro. Le difficoltà di farlo sono connesse con la sostenibilità socio-politica dell'assunzione degli standard germanici da parte degli altri paesi ed anche con i costi che i tedeschi sono disposti a pagare per la loro leadership in Europa. Il problema non è economico, ma politico. Impone modifiche strutturali, sociali, istituzionali e culturali, dalla riforma della Pubblica Amministrazione, dei servizi e della giustizia civile, alla formazione professionale, all'innovazione tecnologica, al costo dell'energia, aumentato per le PMI italiane dai dissennati incentivi dati alle rinnovabili (100 mld. di euro nel prossimo decennio), e così via. L'analisi geopolitica indica che la posizione relativa della Germania si rafforzerà fino al 2050, anche per effetto del grandioso piano di privatizzazione dell'industria russa, sul quale la Germania farà la parte del leone. Dopo, la crisi demografica si farà sentire con tutto il suo peso. Eurostat prevede che, nella seconda metà del secolo, l'entità della popolazione tedesca sarà inferiore a quelle francese e britannica e che, nel 2100, diminuirà dagli attuali 82 milioni di abitanti a circa 65. Il destino (tedesco) di Eurolandia L'attuale crisi potrebbe portare sia ad una maggiore integrazione sia alla disintegrazione di Eurolandia. I ritardi e le indecisioni, verificatesi nelle decisioni sui bailout alla Grecia, l'hanno aggravata. I tempi della politica sono stati anche in tali casi incompatibili con quelli dei mercati. Forse involontariamente, ne ha approfittato la Germania. Con i prestiti ai Paesi in difficoltà, non solo ha evitato la crisi delle sue banche - molto esposte ad eventuali default - ma anche ha imposto il suo controllo sulle politiche di bilancio dei paesi dell'euro ed affermato la sua leadership in Europa, a costi molto contenuti. Infine, la presenza in Eurolandia di paesi in crisi ha indebolito la moneta unica, favorendo le esportazioni tedesche nel mondo. Taluni osservano cinicamente che, se perseguisse un sogno di dominio sull'Europa, alla Germania converrebbe che l'attuale crisi continuasse. Beninteso, non dovrebbe essere tanto acuta da indurre qualche Paese ad uscire unilateralmente dall'euro. Ciò danneggerebbe gravemente l'economia tedesca. Il ritorno della politica Tra le cause della crisi del 2008 va ricordato il fatto che la finanza si era separata dall'economia e che entrambe avevano occupato molti degli spazi riservati tradizionalmente alla politica, anche nel settore della regolamentazione del mercato. Il ritorno della politica è stato salutare. Ha impedito che la crisi causasse una depressione di gravità simile a quella del 1929. Ma oggi le cose si sono modificate. Sia la crisi del possibile default americano, sia l'aggravamento di quella dell'euro, sono state causate dalla politica. Dalle sue indecisioni e conflittualità interne, rese più critiche dall'aumento dei debiti sovrani, dato che la crisi era stata affrontata soprattutto con la socializzazione delle perdite (mentre i profitti rimanevano privati). Lo strappo Atlantico La crisi ha allargato il crescente fossato, determinatosi dopo la guerra fredda fra gli Usa e l'Europa. Bce e Fed adottano politiche opposte, anche perché devono affrontare problemi differenti in contesti diversi. Negli Usa, Paese rifugio del risparmio mondiale, capace di mantenere bassi i tassi di interesse, quale che sia il loro livello di debito, e con una Fed orientata al sostegno dell'economia reale, ha prevalso la politica dello stimolo all'economia, del c.d. Quantitative Easing. Gli Usa, sono stati sempre indifferenti al problema della sostenibilità del loro debito, come dice lo slogan «il dollaro è la nostra moneta, ma è il vostro problema». L'Ue, invece, non è uno Stato, anche se è più di uno spazio economico integrato e possiede talune caratteristiche proprie degli Stati. La moneta unica non ha creato una solidarietà nazionale europea. Le decisioni più importanti nell'Ue - non solo nel campo delle politiche estera e militare, ma anche di quelle sociale e fiscale - sono intergovernative. Vanno prese all'unanimità. L'Ue non ha la sovranità necessaria per governare gli «Stati di eccezione», per dirla con Carl Schmitt. Ciascuno Stato persegue i propri interessi, spesso definiti dalle scadenze elettorali. La moneta unica impedisce gli adattamenti resi necessari dalla diversità delle politiche fiscali e sociali. È divenuta un vincolo molto stretto, anche per l'adozione di una politica di rigore e del contenimento del debito e dell'inflazione, anche a costo di ridurre la crescita. L'intoccabilità del «sacro Stato sociale» finirà per far sì che il peso della sostenibilità ricadrà sulle già indebolite classi medie, che pur rappresentano il pilastro portante degli Stati-nazione europei. Si indeboliranno così sia gli Stati europei, sia i legami transatlantici. Piaccia o no, l'unica alternativa al declino ed all'uscita dalla storia di un'Europa ancora ricca, sarà la sua germanizzazione. In un certo senso paradossalmente, l'euro, da strumento per legare in modo indissolubile la Germania all'Europa, sarà quello per la sua germanizzazione. Verso un mondo a-polare La crisi che si preannuncia modificherà la geopolitica mondiale, cioè la distribuzione geografica del potere e della ricchezza. Il mutamento sta già avvenendo in modo molto rapido. Varie ne sono le cause: l'enorme crescita delle potenze emergenti; lo slittamento del baricentro del mondo dall'Atlantico al Pacifico; il declino demografico dei popoli più ricchi; le fluttuazioni anomale dei prezzi delle materie prime, sia minerali che alimentari; l'aumento dell'importanza dei fondi sovrani, che potrebbero portare ad una «colonizzazione alla rovescia»; la fine dell'«ordine militare», che aveva dominato le relazioni internazionali dalla pace di Westfalia fino al collasso del mondo bipolare, sia per l'esistenza delle armi nucleari, che per il fatto che l'uso della forza costa sempre più e rende sempre meno. È finito il «secolo americano». Per la definizione dei nuovi assetti del mondo, manca però un polo capace di promuovere un nuovo ordine, come furono gli Usa nel 1945. I nuovi poli di potenza sono troppo disomogenei per dar vita ad un vero multilateralismo su scala globale, con istituzioni internazionali forti e regole affidabili. Lo scenario più probabile è quello di un mondo a-polare, caratterizzato dalla frammentazione della globalizzazione in sistemi regionali e dominato dal caos e dalla conflittualità; non dal nomos e dalla cooperazione. Insomma, nel secolo post-americano, ci aspettano tempi duri. Per superarli occorrono leadership forti, capaci in primo luogo di mobilitare il consenso necessario per disinnescare la più pericolosa «bomba ad orologeria» oggi esistente in Europa e che potrebbe contagiare l'economia globale: quella dei debiti sovrani. In Europa, solo la Germania può farlo, almeno nei prossimi tre o quattro decenni. Poi, si vedrà! Fine

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