In manette gli speculatori
Chiamatelo, come lo stanno in queste ore chiamando le fonti finanziarie istituzionali europee, «misunderstanding»: un grande equivoco. Oppure chiametela imperizia da parte dei nostri leader, Silvio Berlusconi compreso. O ancora chiamatela semplicemente speculazione, visto che soprattutto di quella sempre si tratta. Il risultato non cambia, lo si è visto in forma acuta giovedì 4 agosto, e terrà con il fiato sospeso l’Italia e i mercati europei e mondiali per il fine settimana. Ciò che è accaduto è questo. Quando quasi all’alba di mercoledì scorso lo staff di palazzo Chigi ha completato la stesura del discorso che il Cavaliere avrebbe letto da lì a poco nell’aula della Camera, da quel testo mancava ancora una parte importante. Quella che sarebbe giunta direttamente dalla Banca d’Italia, con la quale Berlusconi ha agito in questi giorni in stretto contatto. Molto più stretto di quello con Giulio Tremonti, al punto da far parlare di una sorta di commissariamento. L’incastro di via Nazionale, pervenuto a poche ore dall’orario previsto a Montecitorio (e accompagnato dal pressante invito di spostare il discorso alle 17,30, a mercati chiusi, invito immediatamente girato a Gianfranco Fini in un clima di reciproci sospetti, tanto per non farsi mancare nulla), conteneva due passaggi. Il primo rendeva più stringenti i termini della consultazione con le parti sociali e imprenditoriali per modificare la manovra di luglio. Il secondo era il vero segnale ai mercati: l’impegno ad azzerare il fabbisogno di cassa per l’anno in corso. Berlusconi, da imprenditore, forse ne ha compreso la portata, forse no. Tremonti ne è venuto a conoscenza poco prima di presentarsi in aula. Bankitalia ne ha fatto l’oggetto di una missione riservata che Mario Draghi e il suo direttore generale Fabrizio Saccomanni hanno tentato, e tentano tuttora, con la Banca centrale europea. È noto che Draghi ne sarà il futuro presidente, ma ciò che conta è che in base ai barocchismi dell’architettura della Ue - ottima forse per tempi migliori - le banche centrali nazionali sarebbero le uniche abilitate a trattare con la Bce. Di che si tratta? Il fabbisogno di cassa è quanto resta da finanziare tra entrate e uscite, compresi i rinnovi dei titoli pubblici in scadenza, sui quali il Tesoro sta pagando interessi da capogiro. Da qui a fine anno questo fabbisogno è stimato in 25 miliardi di euro, che l’Italia non può che coprire con le prossime aste di Bot e Btp, tra cui una «maxi» a settembre che tiene tutti in ansia. Azzerare il fabbisogno significa depotenziare la drammaticità dei collocamenti dei titoli italiani, riducendone l’importo e di conseguenza il rendimento. In altri termini, togliere il pane di bocca agli speculatori, o, se vogliamo parlare forbito, ai mercati. Ovviamente l’azzeramento del fabbisogno comporta di trovare per altre vie almeno una parte del cash, e di farlo con misure strutturali, diversamente il problema è solo rinviato. Teoricamente le ipotesi sul tavolo sono molte: da un anticipo del completamento della riforma previdenziale, che in base alla manovra rinvia addirittura al 2030 la parità di età tra uomini e donne nel settore privato (mentre nel pubblico è già in vigore), fino al metodo classico della patrimoniale. Che tuttavia, per essere strutturale, non dovrebbe limitarsi ad una «una tantum», quanto presentarsi come un prelievo sostenibile ma ripetibile. In mezzo ci sono i consueti tagli alla spesa, un blocco delle assunzioni nel settore pubblico, l’aumento delle rette universitarie e quant’altro. Sì, è un menù indigesto, ma riferiamo per la cronaca. La Banca d’Italia d’altra parte è da tempo schierata per la ricetta «rigore più sviluppo», quindi vede di buon occhio i tagli alla spesa, a cominciare dalla previdenza, anziché l’aumento della pressione fiscale (che ogni patrimoniale, seppure «mini», comporterebbe), mentre è decisamente contraria ad interventi che deprimano ulteriormente la crescita o penalizzino i giovani, la ricerca e l’istruzione. Draghi e i suoi avrebbero inoltre suggerito di avviare una nuova tornata di privatizzazioni – a che serve avere quasi il 40 per cento di Eni ed Enel, e la totalità delle Ferrovie? – che impatterebbero non sul deficit ma sul debito, però otterrebbero un doppio risultato: riducendo quest’ultimo farebbero calare il suo costo, e inoltre anticiperebbero sensibilmente la discesa del nostro indebitamento monstre. Secondo alcuni, poi, Bankitalia spingerebbe per un adeguamento immediato al 20 per cento delle rendite finanziarie, oggi tassate al 12,5, e per un anticipo della riforma dell’età pensionabile delle donne. Due misure tutto sommato omeopatiche, e che se accompagnate con altre strette sul 2011 produrrebbero quasi quanto necessario al famoso azzeramento del fabbisogno. Portando tra l’altro fin da subito il deficit vicino a quel 2 per cento previsto per il 2012. Il problema è che il Cavaliere, dopo averlo annunciato, non ha spiegato a nessuno dove e come agire, anzi ha dato inizialmente la sensazione di volere aprire il solito maxi-tavolo con imprenditori e sindacati solo per rinviare ogni decisione a settembre. Peggio di lui ha fatto Tremonti, che continua a ritenere perfetta la sua manovra di luglio, e che soprattutto si sente espropriato di una iniziativa che in questi tre anni ha gestito in solitario. Fatto sta che quando gli emissari di Bankitalia sono andati a chiedere ai signori di Francoforte, sede della Bce, di decidersi a sostenere i nostri titoli pubblici come già hanno fatto per i greci, i portoghesi e gli irlandesi - che di sicuro non si possono considerare meno a rischio degli italiani, e i cui governi non più virtuosi di quello di Roma - si sono sentiti, almeno in prima battuta, rispondere picche. Qui l’intrigo, o il «misunderstanding», si trasferisce alle alte sfere europee, e precisamente nei rapporti eternamente conflittuali tra Bce e governo tedesco. Berlino è contraria a che la Banca centrale intervenga a sostegno dei Paesi a rischio, come invece fanno da sempre la Fed americana o la Banca d’Inghilterra. Anche la Bce è contraria, ma più per un fatto di principio (l’autonomia dai governi) che pratico: se infatti si ragiona in una logica anti-speculativa comprare sul mercato secondario titoli italiani o spagnoli significa assicurarsi lauti interessi con un rischio default che tutti gli analisti più raziocinanti continuano e considerare minimo o nullo. Bankitalia, dunque, non era riuscita almeno all’inizio a convincere la Bce, che forse non aspettava altro per non farsi convincere. «Dove sono le misure immediate del governo di Roma?» è in sostanza la risposta data a via Nazionale; la stessa che il presidente Jean-Claude Trichet ha offerto come alibi ad Angela Merkel. E qui anche l’operato di Trichet, la sua conferenza stampa dell’altro ieri, a mercati non aperti ma apertissimi, meriterebbe l’Oscar della dissennatezza. Il tuttora numero uno della Banca centrale europea, l’uomo che attualmente ha diritto di vita e di morte sui titoli di Stato di questo o quel Paese, ha giocato con l’argomento come se stesse spizzando la carte di un poker online. Incredibile? Non è finita. Perché nel frattempo in Italia andava in scena l’ennesimo e ormai non più divertente teatro fra Berlusconi e Tremonti, esattamente sul coinvolgimento o meno, da parte italiana, della Bce. Bene, il tutto nascondeva tra le quinte quanto vi abbiamo raccontato. Conclusione: noi abbiamo i nostri guai, ma l’Europa ce la sta mettendo tutta per complicarli. E soprattutto per far contenti gli speculatori. Non è un film nuovo: è lo stesso copione cui abbiamo assistito nei giorni scorsi dall’altra parte dell’Atlantico, quando Barack Obama ogni giorno balbettava sul debito americano, le agenzie di rating prendevano nota, e ancora di più le banche cinesi titolari di gran parte dei T-Bond, e su tutti si leccavano i baffi gli speculatori. Ovviamente non sappiamo come andrà a finire. Un topolino però ci ha suggerito che la Bce ha iniziato a sostenere anche i nostri titoli di Stato, ponendo una serie di condizioni. E che dopo il vertice telefonico a tre Merkel-Sarkozy-Zapatero, potrebbe seguirne uno analogo con Berlusconi. Al quale ovviamente verrebbe chiesto di dire che cosa intende fare entro l’anno: la cifra in ballo non sarebbe insostenibile, visto che si parla ora di una quindicina di miliardi (ma la Bce chiede di più). Tutto giusto, anzi tutto inevitabile. Da questo copione continua però a mancare una scena, secondo noi la più importante: vedere in manette (sì, in manette) qualche grande capo di fondo speculativo. A Wall Street come a Londra o Milano. Non mancano gli estremi di reato, anzi si sprecano: dal classico insider trading alla turbativa di mercato. Il codice penale italiano contempla perfino la «distruzione di risparmio pubblico». Abbiamo addirittura appreso che in Europa, la culla delle regole e degli alti papaveri, esistono a fianco delle borse e dei listini normali le «dark pool»: vasche oscure, piattaforme di trading dove compratori e venditori sono rigorosamente anonimi, non tracciabili, e ignoti i volumi giornalieri delle transazioni. Guarda un po’, si sa solo che in queste «dark pool» da fine maggio ad oggi il volume degli affari è più che raddoppiato. Che cosa si aspetta per una bella retata? Colpirne uno per educarne cento, diceva il vecchio Mao. E non sbagliava.