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Da Wall Street a Pechino La crisi ormai è di tutti

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«È stato come quando fai la gara con gli amici a chi piscia più lontano», commenta uno degli intervistati cercando di spiegare alla telecamera la corsa alla speculazione che ha portato alla più grande crisi economica dal 1929 ad oggi. È una delle tante scene di Inside job, documentario premiato agli Oscar e diretto da Charles Ferguson, laurea in matematica a Berkeley e in scienze politiche al Mit, un miliardario che ha fatto fortuna con la new economy e ha poi deciso di dedicarsi ai documentari impegnati. Lo stile è ben diverso da quella stessa Wall street già abitata dal Gordon Gekko di Oliver Stone e impacchettata dall'assai più ideologizzato Michael Moore nel recente passato. E l'effetto è ancora più forte. Perché quegli eventi, così come delle decisioni prese allora, le abbiamo pagate e le stiamo pagando tuttora ad ogni latitudine. L'INIZIO «I consumatori americani potrebbero beneficiarne se le finanziarie offrissero maggiori alternative rispetto ai tradizionali mutui a tasso fisso». Con queste parole, pronunciate nel febbraio 2004, l'allora governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan, dà il via alla girandola che lentamente crea la più grande bolla statunitense degli ultimi 50 anni, quella immobiliare. Le società finanziarie, sicure di avere l'appoggio delle istituzioni monetarie, iniziano a spingere sull'acceleratore dei mutui a tasso variabile, lasciando poi all'ingegneria finanziaria e all'euforia degli investitori il compito di alimentare la bolla stessa. Tre anni dopo, il crollo. La bolla immobiliare Usa si sgonfia e molti possessori di mutui subprime diventano insolventi a causa del rialzo dei tassi di interesse. Il 9 agosto 2007 la Bce rompe gli indugi con un'iniezione di liquidità per 95 miliardi di euro. La Fed attende un solo giorno per immettere sul mercato altri 38 miliardi di dollari. Il 14 settembre Northern Rock annuncia problemi di liquidità e scatena una corsa agli sportelli che rischia di mettere in ginocchio il sistema bancario britannico. Il 13 luglio del 2008 per salvare dal fallimento le due agenzie di credito ipotecario Fannie Mae e Freddie Mac, il governo Usa vara un piano da 200 miliardi di dollari. Finiranno in amministrazione controllata a settembre. Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers dichiara la bancarotta invocando il chapter 11: è il più grande fallimento della storia, con debiti per 613 miliardi di dollari. Il 22 settembre le banche d'affari Goldman Sachs e Morgan Stanley diventano banche commerciali. Le Borse mondiali tornano mediamente sui livelli della fine del ventesimo secolo. IL CONTAGIO Too big to fail, troppo grande per fallire: ecco come era definita Lehman Brothers. Non era così. Ma ancora più imprevedibili sono stati gli effetti di quel crollo. Anche nel Vecchio continente. A causa delle banche che hanno investito sui subprime, il contagio si allarga in diversi paesi europei: la Danimarca entra in recessione nel primo trimestre del 2008. Nel secondo trimestre del 2008, l'insieme delle economie dell'eurozona si contrae dello 0,2%. L'Islanda vacilla sotto il peso del fallimento quasi contemporaneo delle tre maggiori banche del paese e della massiccia svalutazione della corona islandese. Nel Regno Unito e nei Paesi Bassi si provvede ad una parziale nazionalizzazione degli istituti in crisi, mentre la banca franco-belga Fortis, viene salvata dal fallimento grazie all'intervento massiccio dei governi francese, belga e lussemburghese. IL SIRTAKI DELLA CRISI Il 14 dicembre del 2009 il premier greco Giorgio Papandreou annuncia un piano che prevede riforme fiscali, la lotta agli evasori, un congelamento dei salari medio-alti e un blocco parziale delle assunzioni. Atene comunica al mondo di aver dei problemi nella gestione del debito pubblico. È un'escalation: il 15 gennaio 2010 la Grecia trasmette alla Commissione europea il piano di stabilità triennale che prevede di ridurre il deficit dal 12,7% al 2,8% del Pil entro il 2012. Il 3 febbraio da Bruxelles arriva il via libera al piano anticrisi, il 7 maggio un vertice straordinario Eurogruppo a Bruxelles predispone fondo da 110 miliardi di euro. Non basterà. Dopo appena sei mesi arriva il turno dell'Irlanda. Il governo dopo aver nazionalizzato Anglo Irish, Irish Nationwide e Ebs, deve iniettare corposi dosi di liquidità anche ad Allied Irish e a Bank of Ireland. Così la "tigre celtica" dell'economia si ritrova con un debito al 286% del Pil e un deficit addirittura al 32 per cento. Il contagio avanza inesorabile verso il Portogallo, la Spagna e l'Italia dove la politica latita mentre il debito aumenta. VACILLA ANCHE IL DRAGONE All'inizio di luglio Moody's mette in dubbio le cifre di Pechino e lancia un allarme sul debito delle amministrazioni locali cinesi. Secondo l'agenzia di rating il buco di cassa supplementare da 375 miliardi di euro sfuggito ai contabili di Pechino getta un'altra, pesante ombra sulla solidità del sistema bancario cinese, già messo a dura prova dalle sofferenze causate dalla bolla immobiliare. Sommando il debito locale a quello accumulato dal Governo centrale, dalle tre banche di sviluppo nazionale e dal Ministero delle Finanze, si scopre che il totale del debito pubblico cinese ammonta a poco più del 60% del Pil. I più pessimisti ritengono che lo squilibrio patrimoniale di Pechino si aggiri addirittura intorno al 70 per cento. Eppure, analisti ed economisti continuano a rimarcare il fatto che la solidità cinese è una certezza. Esattamente come per i subprime, o per la forza intrinseca dell'Unione europea, o alla robustezza economico-finanziaria degli Usa. Del resto, crisi come quella del 1929, dei titoli tecnologici del 2000 o dei subprime del 2007 hanno tutte un minimo comun denominatore: la sottovalutazione dei rischi.  

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