La Grecia senza euro. Perché si può e si deve fare
Nel 1975 la città di New York si trovò ad un passo dal fallimento sotto il peso di un debito pubblico, determinato – anche lì – dalla manica larga delle amministrazioni pubbliche verso i grandi bacini elettorali: dipendenti comunali, polizia, scuola, giustizia. Una burocrazia che nel sistema americano orienta l’elezione di sindaci, governatori, procuratori. New York chiese aiuto alla Casa Bianca, dove allora sedeva Gerald Ford, un presidente non carismatico né brillante, che aveva guadagnato fortunosamente lo Studio Ovale succedendo come leader repubblicano alla Camera al vice di Richard Nixon, Spiro Agnew; e poi allo stesso Nixon, costretto a lasciare dal caso Watergate. Ford non era un presidente eletto, i media lo prendevano di mira per i suoi scivoloni, letterali nel senso che finiva spesso per terra ed a Vienna ruzzolò dalla scaletta dell’aereo. Tuttavia, come gli fu riconosciuto anche dagli avversari, era onesto ed aveva un forte senso dello Stato. Dunque di fronte alla richiesta di soccorso lanciata dalla grande metropoli e sostenuta dalle sue potenti lobby bipartisan, nonché dal vicepresidente Nelson Rockefeller per 17 anni governatore proprio dello stato di New York, Ford oppose un netto rifiuto: “Non impegnerò mai denari pubblici per aiutare i più ricchi d’America”. A consigliarlo, un poco più che trentenne capo di gabinetto che farà carriera: Dick Cheney, il vice di George W. Bush. Per New York furono tempi duri ma anche l’inizio della risalita. Grazie a una serie di leggi speciali lanciò una gigantesca operazione promozionale che produsse tra l’altro film come “New York, New York” di Martin Scorsese con Liza Minelli e Robert De Niro e la canzone cavallo di battaglia di Frank Sinatra; il logo della Grande Mela; “Manhattan” di Woody Allen. Insomma, tutto ciò che piace particolarmente a noi europei, ed allora piacque molto ai giapponesi e agli arabi che investirono su New York comprandosi i suoi luoghi di culto, tra i quali il Rockefeller Center e l’At&t Building. Edifici tornati poi in mano a capitali americani. La pioggia di soldi esteri, un nuovo regime fiscale che abbassò le imposte dirette aumentando quelle sui servizi (compresa la tassa di soggiorno ed il ticket per entrare a Manhattan), ed infine la pulizia dalla malavita ed il riscatto dei quartieri malfamati intorno alla 42ma strada e Harlem voluti da Rudolph Giuliani, procuratore federale e poi sindaco, hanno rimesso in piedi New York. Che non ha risolto definitivamente i guai di bilancio, ma ha retto al crollo di borsa del 1989, al crac Lehman Brothers, all’11 settembre. Nel frattempo sono entrate in crisi stati come la California e l’Illinois. Ma gli Usa sono così: si fallisce, e magari si rinasce più forti di prima. A differenza dell’America, l’Europa non riesce invece a trovare una soluzione per la Grecia. Esattamente un anno fa, a maggio 2010, i governi europei, la Bce ed il Fondo monetario internazionale concessero 110 miliardi di euro di aiuti. Salvataggi poi estesi all’Irlanda e al Portogallo. Tuttavia sono i problemi di Atene a far perdere il sonno, ed il senno, ai leader del vecchio continente. Mentre la speculazione stappa champagne. Lungi dall’affrontare i problemi strutturali che affliggono Atene e dintorni – conti truccati, decenni di spesa pubblica a piene mani, nessun tessuto industriale – i sussidi, abbinati alle reiterate assicurazioni dell’Unione europea che “la Grecia non fallirà e non uscirà dall’euro” hanno generato la più infernale ma anche la più prevedibile delle spirali. I mercati speculano sui titoli di stato greci protetti dallo scudo dell’euro: se un anno fa le obbligazioni decennali venivano piazzate con un rendimento del 6% e quelle a breve dell’8, oggi il Tesoro ellenico le deve retribuire rispettivamente al 16 e al 20%. Da Wall Street a Shanghai si scommette sulla differenza tra valore nominale dei titoli, che rotola all’ingiù, e rendimento, che aumenta vertiginosamente. Si tratta di puntate a breve, brevissimo periodo ovviamente. Ma il coltello dalla parte del manico ce l’hanno le banche: sono loro che possono staccare la spina mandando deserta un’asta. Nel frattempo Standard & Poor’s ha ridotto a livello C il rating a breve della Grecia: come la General Motors alla vigilia del fallimento pilotato. Nouriel Roubini, il Nobel per l’economia che ha previsto tutte le crisi recenti, afferma che la ristrutturazione del debito greco è inevitabile, anche se non la si potrà chiamare apertamente fallimento. Ciò significa che occorrerà allungare di forza le scadenze dei titoli. “Bisogna però agire in fretta, solo così si eviteranno traumi e anche l’uscita dall’euro”. Questa ipotesi Roubini non la prende in considerazione, mentre continua ad essere assai gettonata in Germania. È infatti il governo di Berlino a condurre le danze, senza però avere in mente un ritmo preciso. Ristrutturare il debito significherebbe mettere nei pasticci le banche tedesche, esposte verso la Grecia per 40 miliardi di euro, meno di quelle francesi (63 miliardi) ma molto di più di tutte le altre europee. Il segnale sarebbe poi accolto come un allarme rosso per l’esposizione complessiva della Germania verso tutti i paesi a rischio, il più alto d’Europa. Sull’altro piatto c’è la concessione di un nuovo aiuto da 60 miliardi, che sarebbe accolto malissimo dall’elettorato che già ovunque premia i partiti che si presentano sotto l’insegna di un antieuropeismo che fa impallidire la Lega. Stretti in questo dilemma, la cancelliera Angela Merkel, la Banca centrale e Bruxelles bollano come “non praticabile” la ricetta di Roubini. A detta di Lorenzo Bini Smaghi, rappresentante italiano nel board della Bce, la ristrutturazione del debito “sarebbe un suicidio politico che provocherebbe miseria e povertà”. Per altri si tratterebbe dell’anticamera della uscita dall’euro. E siccome i governanti e le autorità europee considerano l’architettura dell’Europa attuale come qualcosa di meraviglioso, perfetto, infallibile, non accettano neppure l’evidenza. Eppure quel lontano precedente di New York qualcosa dovrebbe insegnare. Oltre agli esempi più recenti dell’Argentina, della Turchia, del Brasile: tutti paesi sull’orlo del crac, tutti sottoposti alla stessa cura da cavallo del Fondo monetario. Ed oggi in gran parte economie emergenti o più che emerse: il Brasile si è offerto di comprare l’intero debito pubblico portoghese (230 miliardi di euro), che a sua volta è due terzi di quello greco, per il quale sono in corso contatti con la Cina. Che significa tutto ciò se non il preavviso di fine del tabù dell’euro? E forse la soluzione non farebbe male alla Grecia, che sarebbe costretta a camminare senza assistenza pubblica e trovare in sé nuove risorse, a cominciare da un apparato produttivo attraente per gli investimenti esteri; mentre una moneta svalutata rilancerebbe il turismo. Il problema è che Angela Merkel, sulla carta il più forte capo di governo d’Europa, non sembra avere la stessa saldezza di un Gerald Ford, che con Jimmy Carter è stato il più debole presidente americano del dopoguerra.