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di PAOLO CIRINO POMICINO L'assemblea della Confindustria tenutasi a Bergamo sabato scorso rappresenta un punto di svolta nella vita associativa degli imprenditori italiani.

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Inuna società moderna ogni grande interesse organizzato dovrebbe porsi il tema di una assunzione di responsabilità collettiva nella vita del Paese e la politica dovrebbe esercitare il suo primato ricomponendo i mille legittimi interessi in un progetto che ne stemperi le asperità di ciascuno per piegarli a un interesse più generale e largamente condivisibile. La Confindustria ricomincia a farlo recuperando le sue migliori tradizioni nel mentre governo e parlamento affannano in un dibattito vuoto di contenuti e ricco di insulti. È qui il cuore della crisi italiana e le responsabilità non possono che essere pro-quota in relazione al consenso ricevuto. Per vocazione non siamo catastrofisti ma ogni giorno che passa abbiamo sempre più netta la sensazione che stiamo ballando sull'orlo di un precipizio. E più affondiamo e più cresce la massa di insulti e di tifoserie. Nella politica, nell'informazione e nella vita di ogni giorno. Ecco perché annettiamo un grande valore politico alla svolta di Confindustria che non dovrà rimanere isolata se si vuole salvare l'Italia. Ed è la politica tutta a dover cogliere al volo la sfida della Marcegaglia. Hanno ragione quanti paventano il rischio (a nostro giudizio, però, molto meno vicino di quanto si pensi ) dell'implosione dell'euro con l'uscita di alcuni paesi, a cominciare dalla Grecia, dalla moneta unica. L'effetto sarebbe devastante per tutti nel vecchio continente per la gioia della speculazione finanziaria internazionale oltre che per il potere politico dei grandi paesi asiatici e creerebbe un'Europa a due velocità con il rischio, per l'Italia, di venire spaccata in due da uno tsunami finanziario. Nella nostra politica c'è una parte dilettantesca che auspica tutto questo immaginando un futuro florido per il Centro -nord liberato una volta per tutti dal macigno meridionale. Illusi e dilettanti pericolosi. Tanto per dirne una, chi pagherebbe l'enorme debito pubblico che in questi 20 anni è aumentato di oltre 20 punti se non i cittadini italiani che hanno nel proprio patrimonio quantità rilevanti di titoli di Stato? E dove sono questi "rentier", nel ricco Centro-nord o nel Mezzogiorno sottosviluppato? Non proseguiamo oltre per non offendere l'italianità dei nostri lettori, quella italianità largamente presente nell'assemblea confindustriale di Bergamo. Di quei lavori due silenzi, però, ci colpiscono. Il primo è quello sulla devastazione effettuata dalla finanziarizzazione dell'economia internazionale che è il frutto velenoso della globalizzazione e figlia di un'avidità senza ritegno di una finanza che ha smesso di essere un'infrastruttura al servizio dell'economia reale, quella cioè che produce beni e servizi e che distribuisce benessere, per diventare un'industria a se stante che arricchisce pochi e impoverisce molti. Tanti imprenditori finiscono per dirottare verso questa sponda finanziaria risorse importanti sottraendole alle proprie aziende creando così inavvertitamente un danno reale al proprio Paese. Ci rendiamo conto che non si può chiedere ai singoli quelle virtù che folli deregolamentazioni dei mercati finanziari hanno generato nel silenzio complice della politica ma è un tema vitale per le sorti delle democrazie moderne. Il secondo silenzio è il fallimento del processo di privatizzazione selvaggia avvenuto negli anni '90 che ha lasciato, salvo lodevoli eccezioni, l'Italia alla conquista colonizzatrice di quel capitalismo internazionale che nega ogni reciprocità. Valga per tutti la vicenda Telecom privatizzata prima nella mani della Fiat, passata poi in quelle di Colaninno e dei capitani coraggiosi, infine in quelle di Tronchetti Provera per finire in quelle spagnole di Telefonica. Due silenzi sui quali si dovrà ritornare a riflettere ma che non intaccano il valore politico del messaggio confindustriale anche se difficilmente la politica di oggi saprà raccoglierlo uscendo dalla sua sciatteria e dal suo pressappochismo.

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