Il buy american di Marchionne
«Iu-es-ei! Iu-es-ei!» hanno di nuovo scandito ieri i newyorkesi accogliendo Barack Obama a Ground Zero, come già era accaduto alle 11 di sera di domenica scorsa, alla notizia dell'eliminazione di Bin Laden, quando si sono raccolti a migliaia a Times Square. “Imported from Detroit” declama Eminem nello spot della nuova Chrysler 200, che a febbraio è stato la colonna sonora del Super Bowl. Non vogliamo stabilire paragoni irrispettosi, ma qualcosa lega questi due fatti. Che cosa? Semplice: l'orgoglio americano, o meglio la sua rinascita celebrata nei luoghi e nelle occasioni più simbolici, ma anche fino a ieri più problematici. I cittadini di New York, al pari di quelli di Washington che si erano radunati dove Pennsylvania Avenue passa davanti alla Casa Bianca, sono i più disincantati – nonché i più liberal – di tutti gli Stati Uniti. Il nazionalismo di maniera non è nelle loro corde. La politica è certo molto gettonata – la East Coast è il covo del New York Times, del Washington Post, del Wall Street Journal – ma più come argomento di dibattito e spesso di sofisticata o cinica dissacrazione che non come elemento unificante. Quanto a Detroit, la “metal city” culla dei tre giganti automobilistici GM, Ford e Chrysler, nel 1950 aveva 1,8 milioni di abitanti: la crisi dell'auto li ha ridotti a 713 mila, quanti nel 1910. Secondo un recente documentario della Cnn, da Detroit un cittadino ogni 22 minuti se n'è andato al Sud o sulla costa Ovest, provocando tra chi è rimasto un innalzamento dell'età media e problemi sociali a non finire. Eppure lo spot di Eminem, che si apre su squarci di ciminiere e grattacieli decò, su cieli grigi e nevosi, cresce in un rap che gemella la vecchia «sim city» con la «windy city» (Chicago) e con i mosaici New Deal e le statue simboliche del lavoro americano del Rockefeller Center (New York), proclamando «We are from America». E, appunto, «Imported from Detroit». Il messaggio ha colto nel segno, almeno stando alla critica. E ciò che più conta stando alle vendite: la Chrysler ha chiuso il mese di aprile con il 13mo aumento consecutivo: 117 mila veicoli venduti, il 22 per cento sull'anno precedente. Le prenotazioni dai concessionari sono cresciute del 37 per cento rispetto al 2010, e soprattutto i bilanci sono tornati in nero. Il tutto in un mercato dell'auto Usa che risale del 18 per cento, ed al suo interno sono proprio i tre marchi nazionali – dati per spacciati due anni fa – che migliorano di più. L'esatto contrario di ciò che accade in Italia e in Europa. In questa situazione non stupisce – o meglio, desta fastidio solo in Italia – che Sergio Marchionne si stia preparando a trasferire da Torino a Detroit la testa e la sede legale del gruppo Fiat-Chrysler. E che stia predisponendo le munizioni finanziarie e produttive per salire entro il 2011 al 51 per cento della casa americana, riscattando la quota in mano al governo e ai sindacati, rimborsando il prestito di 7,6 miliardi di dollari concessi dal Tesoro americano e canadese e rinegoziando i debiti bancari attraverso un consolidamento affidato alla Goldman Sachs. Un percorso che potrebbe infine vedere la quotazione in borsa dell'azienda con un guadagno di cui beneficerebbero tanto la Fiat quanto i dipendenti che hanno accettato di diventare azionisti nel periodo più buio della crisi, quanto infine la stessa Casa Bianca. La Chrysler che due anni fa era solo debiti, in caso di sbarco a Wall Street è valutata già oggi dagli analisti sei miliardi di dollari Che Marchionne abbia un certo talento finanziario si sapeva. Però ancora più interessanti sono i motivi per cui questo supermanager ha deciso di puntare la prua sull'America, anche a costo di un disimpegno dall'Italia che non sarà certo indolore, e che comunque si cercherà di diluire il più possibile nei tempi e nell'impatto. Secondo una attendibile ricostruzione, in un recente summit con gli azionisti ed un gruppo ristretto di banchieri e gestori, l'uomo dal pullover nero ha elencato i seguenti fattori strategici: 1) il recupero del mercato Usa è a suo avviso non congiunturale ma strutturale; 2) questo avviene in un contesto di ripresa del «buy american», che – parole di Marchionne – deriva a sua volta da un panorama sociale americano nel quale le certezze riprendono il sopravvento sulle paure degli ultimi anni; 3) in definitiva l'America sta riscoprendo se stessa. Come del resto altre volte nel dopoguerra, per esempio dopo la crisi depressiva post-Vietnam, riscattata dagli anni di Ronald Reagan prima, da quelli di Bill Clinton dopo. L'analisi di Marchionne individua negli Stati Uniti del futuro una situazione quasi ideale: nella quale coabiterebbero le migliori condizioni per produrre a costi ragionevoli; un mercato destinato a confermarsi come il più ricco e vivace sia per volumi sia per elevate esigenze della clientela; ed infine la politica di credito facile attuata dalla Federal reserve che si porta dietro un deprezzamento duraturo del dollaro rilanciando l'export ed il made in Usa. Non sappiamo se queste previsioni si confermeranno in pieno; la crisi del 2008 ha insegnato a tutti la cautela. Di certo, però, quel nastro sottile che lega lo slogan di Eminem alla esultanza nazionale e popolare per l'uccisione di Bin Laden è di tessuto robusto. L'orgoglio americano, lo spirito delle stelle e delle strisce sembravano smarriti tra gli imbrogli di Wall Street e le incertezze di Obama, sotto i colpi del terrorismo e delle economie emergenti. Ma è una roccia che nei decenni ha sempre resistito alle bufere. E quando riaffiora proietta il suo profilo sul mondo.