Parmalat ci ha dato capitali freschi
L'argomento dei colloqui italo - francesi che ha ricevuto forse la maggiore attenzione dagli organi d'informazione è stato quello del destino della Parmalat. Il sostanziale via libera che Berlusconi ha dato all'acquisto da parte della multinazionale francese Lactalis è stato visto da molti come un cedimento alla Francia, come l'alienazione di un gioiello di famiglia che ci è stato sottratto. Ha scritto, per esempio, Dario Di Vico (Corriere della Sera, 27 aprile): «Ma pur non sottovalutando l'evoluzione della vicenda e il trionfo delle regole del mercato, l'applauso - francamente - non scatta». «Parmalat resterà sempre una grande occasione mancata per determinare un salto di qualità della politica industriale italiana e dell'export agro-alimentare, un'occasione persa non per colpa del fato avverso ma di un deficit di visione. Come si poteva pensare che un gioiellino (lo dimostra il prezzo che pagheranno i francesi) restasse tranquillo nella sua teca senza che a nessuna multinazionale venisse voglia di portarselo a casa?» Stimo Dario Di Vico, che considero un ottimo e documentato giornalista, ma quanto da lui sostenuto è francamente incomprensibile. Lactalis paga un prezzo che evidentemente ritiene conveniente e che Di Vico considera alto. L'affare, dunque, è vantaggioso sia per l'acquirente sia per i venditori: dov'è lo scandalo? Parmalat non verrà «portata a casa» da nessuno, gli impianti resteranno dove sono, le maestranze resteranno dov'erano, i fornitori italiani di latte continueranno a fornirlo; tutto quindi resta in Italia. Non solo, ma coloro che hanno venduto azioni incasseranno una contropartita che anche Di Vico considera vantaggiosa. Siamo cioè in presenza di un afflusso di capitale nel nostro Paese. I soldi incassati dagli azionisti della Parmalat non saranno bruciati in un rogo purificatorio ma verranno, direttamente o indirettamente, investiti, perlopiù in Italia. La capacità produttiva della nostra economia aumenterà con vantaggio per tutti. Dovremmo applaudire l'operazione non fischiarla, come sembra volere Di Vico. Molte delle stranezze dei commenti a questo come a molti altri casi derivano da un'insufficiente conoscenza dell'analisi economica più elementare. Se un'impresa italiana ne scala con successo una estera, la cosa manda in visibilio la generalità dei commentatori. Ma si tratta di una «fuga» di capitali italiani all'estero; invece di essere impiegati da noi, si spostano aldilà delle frontiere, arricchendo il Paese destinatario. La capacità produttiva di un Paese dipende, com'è ovvio, dalla quantità di fattori produttivi impiegati, dalla loro qualità e dalla razionalità del loro utilizzo. Questo vale per il capitale ma vale anche per il lavoro; un Paese demograficamente moribondo, come il nostro, dovrebbe accogliere con favore quanti vorrebbero venire da noi a lavorare, non respingerli con sdegno. La tesi secondo cui il loro ingresso in Italia sottrae posti ai lavoratori italiani è falsa. La gran parte dei disoccupati italiani, dotati di titoli di studio se non addirittura di laurea, non accetterebbe mai il tipo di impiego che gli stranieri sono disposti a svolgere. Già adesso la raccolta di prodotti ortofrutticoli, i lavori umili nelle cucine dei ristoranti o nelle fabbriche e così via, sono svolti da stranieri. Se è vero che abbiamo un elevato tasso di disoccupazione giovanile, è altresì vero che in molte zone del Paese non si trovano persone disposte a svolgere lavori essenziali per il funzionamento delle aziende. Mi rendo conto che la problematica connessa all'immigrazione di lavoro è complessa e sono, quindi, disposto a comprendere che su questo punto i pareri siano distanti. Ma per quanto riguarda il capitale non riesco proprio a capire perché siamo contenti quando emigra all'estero e ci stracciamo le vesti quando compie il percorso inverso. Come sosteneva Frank Knight, il decano della prima scuola di economia di Chicago, «il problema non è che la gente sa troppo poco di economia, il vero guaio è sa tante cose, tutte sbagliate!».