Il pragmatismo di Berlusconi E lo sdoganamento del raìs
Chiariamo subito alcuni equivoci: la Libia non è tra i primi produttori mondiali di petrolio. È un'inesattezza nella quale siamo incorsi in passato anche noi definendo Tripoli il quarto produttore al mondo: in realtà è quarto in Africa dopo Nigeria, Algeria e Angola. Nel ranking mondiale figura invece al 18mo posto nel 2009. Al top ci sono Russia, Arabia Saudita, Usa, Iran, Cina, Canada, Messico, Emirati, Iraq, Kuwait. E poi Venezuela, Norvegia, Nigeria, Brasile, Algeria. Discorso diverso per le riserve, che sono le ottave del mondo dopo Arabia, Venezuela, Iran, Iraq, Kuwait, Emirati, Russia. È questa la classifica che conta, perché dice del vero potere di Tripoli nel mercato energetico mondiale. Nel sottosuolo libico è custodito il 3,3% delle scorte mondiali di greggio, con una vita media residua di 73,4 anni, appena inferiore a quella dell'Arabia Saudita. Le riserve della Libia sono le più consistenti dell'Africa, ma la loro vita residua è inferiore al Venezuela (194 anni), che appare il vero player dei prossimi anni. La Russia ha il 5,6% delle scorte, ma con un vita residua nettamente più breve – vent'anni – ed è per questo che Vladimir Putin e (ex) compagni puntano sul gas. Non solo. Secondo l'Eia, l'Agenzia americana dell'energia, nel 1969, prima dell'avvento del Colonnello, le aziende petrolifere straniere tra cui l'Eni estraevano in Libia oltre due milioni di barili al giorno. Nel 2009 se ne sono estratti 1,8 milioni di barili. Quindi non è neppure vero che Gheddafi significhi, di per sé, petrolio. Non almeno per il mondo. Però Gheddafi vuol dire petrolio per l'Italia, a cui fornisce il 38% del fabbisogno nazionale. Inoltre ci arriva attraverso il gasdotto Green Stream il 12% del fabbisogno di gas. La chiusura del tubo, decisa ieri dal Raìs, preoccupa ma non ci danneggia nell'immediato perché abbiamo accumulato scorte rassicuranti, mentre gli altri gasdotti dall'Algeria, dalla Russia e dal Nord Europa funzionano solo all'80% della portata. L'intreccio Italia-Libia, o meglio Italia-Gheddafi è dunque per noi un fatto principalmente di business e presenza libica in gruppi strategici italiani, dall'Unicredit all'Eni alla Finmeccanica. E naturalmente di commesse per le nostre aziende. Inoltre c'è una componente simbolica nelle «special relationship» che in questo momento viene particolarmente enfatizzata da due fronti: l'opposizione di sinistra, e gli Usa. Cominciamo dagli americani dei quali, pure, siamo alleati. Va in crisi il Colonnello e puntualmente spuntano nuovi files di Wikileaks con dispacci dell'ambasciata statunitense a Tripoli. Dai quali sembrerebbe che Gheddafi sia stato sdoganato solo ed esclusivamente da una persona: Silvio Berlusconi. Stessa cosa afferma il Pd, ed anche la sinistra mediatica tipo Repubblica che sottolinea con compiacimento il «gelo dell'Unione europea verso l'Italia». Il gelo, in realtà, riguarda gli sbarchi di clandestini – un problema del quale Bruxelles si è sempre lavata le mani da qualunque Paese e da qualunque dittatura questi barconi fuggissero – e non la gestione politica dell'affare libico. Su questa come è noto, e purtroppo, ogni Paese segue i propri interessi, e l'Europa marcia divisa dagli Usa, esattamente come per l'Egitto, per l'Afghanistan e a suo tempo per l'Iraq. Eppure se qualcuno ha sdoganato il dittatore, almeno negli ultimi anni, non è stato Berlusconi (che caso mai gli ha dedicato più attenzioni del dovuto), ma nell'ordine George Bush in America, Gordon Brown in Inghilterra e Romano Prodi in Europa. Bush, proprio lui, abolì tra il 2003 e il 2004 le sanzioni decretate da Ronald Reagan, agendo sotto la spinta delle major petrolifere americane. Gli Usa infatti hanno la situazione opposta alla Libia: sono il terzo produttore mondiale ma il 12mo per le scorte, con una vita residua di appena 11 anni. Nel 2006, poi, la Casa Bianca ha cancellato Tripoli dalla black list dei governi filo terroristi e l'ha messa in attesa per lo status di partner preferenziale: significa che le aziende americane in Libia avranno sconti sulle tasse. Nel 2009 la Gran Bretagna ha riconsegnato Abdel Basset al-Megrahi, ex agente dei servizi segreti, condannato all'ergastolo per l'attentato di Lockerbie, che Gheddafi ha accolto come un eroe. Per aggirare l'imbarazzo il governo di Sua Maestà ha attribuito la decisione alla Scozia; nel frattempo la Bp si aggiudicava ricchissimi diritti di sfruttamento petrolifero. E Prodi? Come presidente della Commissione europea ricevette il Raìs a Bruxelles. Come capo del governo italiano predispose il famoso trattato di amicizia firmato poi da Berlusconi. Ben prima del centrodestra, altri ministri italiani sono andati a farsi ricevere sotto la tenda di Gheddafi: Massimo D'Alema e Lamberto Dini. Ed oggi Prodi è nell'advisory board proprio della Bp: nulla di male, diciamo che conosce la materia. È al termine di questo tragitto di storia recente che nel settembre 2009 il neo-insediato ambasciatore americano a Roma, David Thorne, dichiara: «L'Italia ha relazioni storiche con la Libia, e gli Usa sono contenti che la Libia rientri nella comunità internazionale. Incoraggiamo i progressi in questo senso». Anche perché Washington, come si vedrà poi proprio da Wikileaks, ha puntato altrove il mirino: sui rapporti Italia-Russia, o meglio Berlusconi-Putin. Accordi che secondo Washington espongono noi e l'Eni a una pericolosa dipendenza energetica; in particolare il gasdotto South Stream, che porta gas russo in Italia attraverso la Turchia, bypassando le ex repubbliche sovietiche, e che è il gemello meridionale del North Stream, che collega la Russia alla Germania sotto il Baltico, girando alla larga dalla Polonia. Presidente del North Stream è Gerard Schroeder, l'ex cancelliere. Gli Usa invece sponsorizzano un terzo progetto, il Nabucco, che attraverserebbe gli stati caucasici e danubiani, molti dei quali divenuti alleati di ferro degli americani. Ora, con il Maghreb in fiamme, la scelta di Berlusconi (e prima di lui della Germania) si è rivelata quanto meno pragmatica. Può darsi che in futuro entri in crisi anche Putin, anche se pare da escludere. Ma voi conoscete qualche Paese fornitore di petrolio che sia anche una democrazia? E se per assurdo potessimo approvvigionarci dalla Norvegia, quanto dovremmo pagare di luce? E ancora: se davvero vogliamo emanciparci dai vari raìs del mondo, perché la sinistra si oppone al nucleare? Questi sono i termini della questione: il resto chiacchiere, egoismi, furbizie.