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Il mondo si muove e Sergio lo segue

Sergio Marchionne

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Se i nostri politici e sindacalisti di sinistra si prendessero la briga di buttare un occhio a qualche numero, forse comprenderebbero meglio la questione Mirafiori, dove domani si tiene il referendum. Non serve molta fatica. Il salone di Detroit, aperto due giorni fa, documenta l'aria che tira a livello mondiale, e soprattutto a livello Fiat. Intanto c'è clima di svolta dopo la crisi del 2008-2010: e la luce, secondo gli analisti, comparirà dove erano calato il buio più fitto; cioè negli Usa. La General Motors stima che il mercato americano potrà salire a 13,5 milioni di auto vendute (dagli 11 attuali). Un po' più cauta la Ford che prevede comunque non meno di 12,5 milioni di auto. Con ciò gli Stati Uniti tornerebbero a superare la Cina, dove nel 2010 si sono venduti quasi 14 milioni di veicoli, solo 4,4 dei quali però autovetture. Anche l'Europa dovrebbe chiudere in aumento, oltre i 12 milioni di auto. A lungo andare è fatale che la partita venga vinta dai cinesi ma nel frattempo c'è da registrare il ritorno agli utili di Ford, Gm e Chrysler, che poco più di un anno sembravano sull'orlo del fallimento, e almeno nel caso della General Motors avevano chiesto alla Casa Bianca l'ammissione all'amministrazione controllata dallo Stato. Ora la Gm è uscita dalla crisi, la Ford non c'è mai stata, e la Chrysler come è noto è stata salvata grazie alla cogestione di Fiat, sindacati e prestiti federali. Per chi produce in America, e ha rispettato i piani industriali pretesi dal governo, si apre una stagione di sgravi fiscali legati all'innovazione e alla produttività. Mentre la debolezza del dollaro potrà rilanciare l'export. È per questo che Sergio Marchionne ha deciso di aumentare al 25% la quota del Lingotto nella Chrysler, con l'obiettivo di giungere al 51% entro il 2011 e possibilmente restituire a Barack Obama quanto ottenuto nel giugno 2009: è il passo preliminare per partecipare alla torta americana, sia in termini di mercato sia di successivi benefici federali. In questa ottica si spiegano la probabile quotazione in borsa della Ferrari, la scissione in borsa tra auto ed altre attività industriali, ed ancora i risparmi che il top manager punta ad ottenere dal «world class manufacturing», il nuovo modello industriale che la Fiat intende applicare a Mirafiori e a tutti i suoi stabilimenti italiani. Si tratta della bellezza di 2,6 miliardi entro il 2014, più di quanto Marchionne potrà ottenere tanto dalla Ferrari quanto dalla quotazione di Fiat Auto. Eccola dunque la vera partita dell'uomo dal pullover nero: stiamo parlando di soldi necessari per competere, cioè per tenersi a galla in un mercato che torna sì a vedere la luce, ma dove i concorrenti non stanno certo a guardare. Basta pensare che la Vokswagen è diventato il secondo produttore mondiale (dietro a Toyota) scavalcando la Ford, con 7,2 milioni di veicoli, e che la casa tedesca ha deciso di puntare massicciamente e contemporaneamente sia sugli Usa – con un nuovo stabilimento a Chattanooga da 800 mila auto, il triplo di quanto dovrebbe produrre Mirafiori rinnovata – sia sulla Cina. Al tempo stesso gli uomini di Wolfsburg hanno iniziato un pressing proprio sul Lingotto per ottenere l'Alfa Romeo, che nelle loro mani dovrebbe diventare il biglietto da visita per tornare in grande stile negli Usa rinverdendo i fasti della Duetto di Dustin Hoffman nel «Laureato». In cambio la VW potrebbe cedere la propria divisione di veicoli industriali, un settore dove la Fiat ha mostrato di saperci fare, e che svilupperebbe nelle economie emergenti. Neppure gli altri costruttori europei stanno con le mani in mano, a cominciare dalla Renault-Nissan: 2,6 milioni di auto vendute nel 2010, più 14%. Mentre al quinto posto mondiale, dietro Toyota, VW, Ford e Gm, è salita la coreana Hyunday-Kia, fino a poco tempo fa una outsider. È di fronte a queste realtà che Marchionne deve misurarsi. Nel 2009, quando sembrava che potesse prendersi anche la Opel, l'ad del Lingotto disse che per sopravvivere nel mercato automobilistico tra dieci anni sarebbe stato necessario produrre (e vendere) come minimo 6 milioni di macchine. Poi ha abbassato a quattro l'asticella. Con la Chrysler supera di poco i due milioni: ma nel frattempo è il Brasile, non l'Italia, ad essere divenuto il primo produttore di veicoli Fiat. Il sorpasso è avvenuto l'anno scorso, e solo riportare gli stabilimenti italiani a livelli di efficienza accettabili potrà invertire la situazione. Ecco perché quando Marchionne dice «se vince il no andremo a fabbricare a Brampton, in Canada, o nel Michigan», la sua non è una minaccia politica, né tantomeno è una forzatura negoziale, secondo gli standard cui siamo abituati. È invece la scomoda realtà. Insomma, il mondo si muove. E Marchionne non può attendere. Neppure i lavoratori italiani della Fiat potrebbero (e dovrebbero) attendere, anche se si accorciano un poco i turni mensa e si ridefiniscono le rappresentanze sindacali. Del resto con l'altra mano Marchionne propone loro un maggior guadagno stimato in 4 mila euro l'anno, ma soprattutto la prospettiva di mantenere un futuro. Alla Volkswagen entreranno da qui al 2015 oltre 50 mila nuovi addetti. Mentre gli stessi dipendenti Chrysler, se la Fiat ricomprerà le loro azioni, potranno rifarsi con gli interessi della cinghia tirata in questi due anni. C'è qualcuno tra Fiom, Cgil, sinistra e difensori (a sproposito) della Costituzione che riesca a capirlo?

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