Fita ingrana e Fiom sbiella
Fiat lux, ma con un'ombra inquietante. È stata una vera fortuna che per il governo al tavolo dei colloqui ci fosse un ministro in gamba e competente come Maurizio Sacconi, è stato ammirevole il comportamento coraggioso del segretario della Cisl Raffaele Bonanni e della Uil Luigi Angeletti, ma è disastrosa la strategia della Cgil e della sua ala più radicale, quella dei metalmeccanici della Fiom. Abituati a rovesciare i tavoli più che a firmare i contratti, i duri e puri agitano una battaglia che non promette niente di buono. L'arrivo di Susanna Camusso al posto di Guglielmo Epifani alla segreteria della Cgil ha peggiorato una situazione già compromessa. C'è da attendersi un 2011 difficile in fabbrica. Due passaggi di cronaca fotografano lo scenario. Il segretario della Fiom Landini parla di «attacco senza precedenti alla democrazia» e annuncia lo sciopero di otto ore per il 28 gennaio; il cigiellino Sergio Cremaschi evoca il «fascismo», mette alla gogna Bonanni e Angeletti definendo la firma dell'accordo «una macchia indelebile nella storia di Cisl e Uil. Per noi non contano più niente. Sono fuori dalla cultura democratica sindacale dell'Italia costituzionale» e annuncia manifestazioni della Fiom che «scuoteranno il Paese». Mi pare basti e avanzi per capire che siamo di fronte a un terreno incandescente in cui un movimento sindacale si propone come l'avversario più duro del governo al più alto livello possibile. La Fiom in questi anni si è ritagliata un ruolo di antagonismo politico che ha sottratto spazio di manovra alla Cgil, fino di fatto a inglobarla. Questo soggetto nascente parte dalla fabbrica e punta ad espandersi. Già durante le assemblee degli studenti universitari questo sviluppo era emerso su Il Tempo, il link, la saldatura tra la Cgil e quelli che sognano l'innalzamento del conflitto sociale. Da questo momento in poi ciò che accade in fabbrica e ciò che si discute nelle assemblee universitarie è da osservare con estrema attenzione. Il legame è quello della resistenza al cambiamento, ma soprattutto la rinascita di un pensiero rivoluzionario che in realtà in Italia non è mai stato sepolto: il marxismo. Lo spettro che s'aggira per l'Italia è quello dell'instabilità e del disordine sociale, in nome di una confusa idea dei diritti e un uso spregiudicato della Costituzione come bandiera delle proprie lotte sbagliate. La Fiom piace agli intellettuali e ai cosiddetti «spiriti impegnati» perché ha riesumato il pensiero marxista in Italia. Non so quanti di loro hanno letto il Capitale, ma la critica, le argomentazioni, i «luoghi» del dibattito sono quelli. Il linguaggio e le metafore sono quelli della «critica radicale del reale» e del «messianismo senza religione». Chi ha voglia di esplorare questa rinascita, può leggere un libro scritto da Diego Fusaro e pubblicato da Bompiani intitolato «Bentornato Marx!». Ma chi si accontenta della battuta di Woody Allen («Dio è morto, Marx è morto e neanche io mi sento tanto bene») non può ignorare che la Fiom e il magma del movimento studentesco sono oggi la falange più avanzata della conservazione. I portabandiera di quella vischiosità e resistenza al cambiamento dell'Italia che sono il vero freno del Paese. Il partito degli irriducibili è vario, ma ha un interesse comune: impedire l'evoluzione del sistema e mantenere la situazione così com'è perché è l'unica in grado di assicurare grandi e piccole rendite di posizione. Eppure la storia contemporanea ci offre lezioni da non perdere. La crisi finanziaria del 2008, la recessione e la ristrutturazione di interi settori industriali (tra i principali, finanza, editoria, immobiliare, telecomunicazioni, alimentare, aerospazio e auto) hanno letteralmente cambiato lo scenario di riferimento: il mondo prima del grande crac del 2008 è archeologia, una grande bolla svanita, e quello che è arrivato dopo fa i conti con l'emergere di nuove potenze, un mercato del lavoro planetario e una competizione fortissima sulla ricerca e le materie prime. La storia procede a salti, non in linea retta. E l'economia sembra non avere - almeno per quello che noi consideriamo Occidente - un andamento a V (caduta e relativa crescita) ma in quello che un direttore del Fondo Monetario nei mesi post crac mi descrisse durante un incontro a Washington come l'economia in «Jacuzzi style», un mercato senza impennate e con molte bollicine. Ecco perché l'attesa ripresa non si è mai pienamente realizzata. Ecco perché gli Stati Uniti continuano a non risolvere il problema della disoccupazione. La crisi è stata dura, spietata, ha tagliato produzione e posti di lavoro, ma il sistema ha ritrovato efficienza e quei posti probabilmente non saranno ricreati. Questo scenario una larga parte dell'establishment, dell'industria e del sindacato del nostro Paese sembrano non coglierlo, o meglio, sanno benissimo che è così, ma pensano di poter continuare a vivere in un Paese disconnesso dal resto del mondo. Per questo c'è una grande resistenza all'innovazione. Ma improvvisamente un vecchio elemento di questo sistema di conservazione, uno degli emblemi dello status quo, la Fiat, diventa totalmente nuovo per mano di un signore che si chiama Sergio Marchionne. Un manager che in pochi anni porta una casa automobilistica che era diventata una fornace ad acquisire il controllo di un gigante di Detroit, la Chrysler e proporre il Lingotto come uno dei player mondiali dell'automotive. Quando Marchionne mise a segno il colpo americano scrosciarono gli applausi. Era un rito. In pochi capirono che quel passo era l'ingresso del principale gruppo industriale italiano in un mondo dal quale l'Italia era sempre rimasta ai margini. Il Big Game nel quale Marchionne aveva deciso di catapultare la Fiat era l'inizio della fine del sistema consociativo impresa-sindacati uscito dagli accordi del 1993. Diciassette anni dopo quello schema è stato archiviato perché privo di visione, miope, disegnato per un'Italia senza aziende che operano su scala internazionale. E nonostante i fatti siano tutti là, a disposizione di chiunque, la Fiom, la Cgil, il solito gruppone di intellettuali di complemento e una fetta importante di establishment pensano che il futuro della fabbrica e della produzione sia quello di quarant'anni fa. Nessuno di loro ha idea di cosa sia l'innovazione tecnologica, di quale profonda trasformazione sia in corso, di come l'intelligenza artificiale sostituirà in maniera ancor più massiccia l'opera dell'uomo. Sono fermi a Marx, mentre siamo nell'era di Google e della smaterializzazione delle cose. Diceva il filosofo di Treviri che «i proletari non hanno nulla da perdere, all'infuori delle loro catene». Be', il vecchio Karl resta da leggere, ma qualcosa nel frattempo è cambiato. In questo mondo, si sveglia un cinese, un brasiliano o un indiano e tu, improvvisamente, hai qualcosa da perdere: il lavoro.