Il sommerso, una piaga che rende
Novemilaquattrocentoquarantotto miliardi di euro. In altri termini, oltre sei volte il prodotto nazionale lordo. O, se si preferisce, cinque volte il debito pubblico. È la ricchezza lorda nel 2009 delle famiglie italiane, così come emerge dal Bollettino statistico della Banca d'Italia, pubblicato ieri. Metà di questo patrimonio sta nel mattone: 4.667 miliardi, ossia 196 mila euro a famiglia. Al secondo posto tra le «ricchezze reali», e largamente distaccati, gli oggetti di valore: 122 miliardi. Prima considerazione: non siamo affatto un popolo povero. Perché 196 mila euro a famiglia di patrimonio solido, le case, rappresentano un paracadute formidabile, anche dal punto di vista sociale. Di più: una polizza assicurativa tra generazioni. E, si badi, in questo caso stiamo parlando di cifre riferite ai valori catastali ufficiali, notoriamente al di sotto di quelli di mercato. Questo spiega, forse, perché in Italia le tensioni sociali siano in fondo meno rilevanti che altrove, benché ogni tanto più vistose. Seconda considerazione: non ha torto il governo quando afferma che il nostro debito pubblico è più sostenibile di quello di molti altri paesi, sorretto com'è da una ricchezza pari a cinque volte l'indebitamento dello Stato. E quindi fanno bene Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi a battersi nelle sedi europee perché di questa sostenibilità si tenga conto nel definire la nuova governance comunitaria. Ma, sempre a proposito di casa, la conferma della propensione degli italiani a puntare sull'immobile dà in fondo ragione al governo anche su un altro fronte: quello delle tasse, e in generale dei vincoli burocratici. C'è un criterio nell'avere abolito l'Ici sulla prima abitazione, e nell'aver cancellato i numerosi timbri che occorrevano per ristrutturare e migliorare le nostre abitazioni. Un criterio che va al di là della ricerca del mero consenso politico, che pure esiste. Migliorare il patrimonio abitativo significa migliorare la ricchezza complessiva del Paese. Al tempo stesso, incoraggiare – usiamo le parole di Tremonti – il formarsi e consolidarsi di una «società di proprietari» vuol dire introdurre il più potente vaccino contro l'instabilità sociale e l'antagonismo tra classi. Un'altra fetta cospicua della ricchezza familiare – il 37,7 per cento, cioè 3.561 miliardi di euro – è costituita da attività finanziarie. E tra queste i titoli pubblici continuano ad avere la prevalenza, ma non come un tempo: la loro bassa remunerazione, almeno nel 2009, ne ha favorito l'esodo a favore soprattutto del risparmio postale. Anche qui il tema di fondo non cambia: gli italiani erano e restano un popolo di risparmiatori, visto che riescono ad investire due volte e mezzo l'equivalente del Pil, il doppio rispetto al debito pubblico. Ed anche questo è un notevole argomento a favore della sostenibilità del nostro indebitamento, e del minor rischio-paese rispetto ad altri. Ma è andando a verificare altri parametri più sofisticati che emerge un quadro dell'Italia che dovrebbe indurci a stracciarci un po' meno le vesti, se non altro rispetto a quanto si vede in certi talk show. Parliamo della ricchezza netta, cioè del patrimonio complessivo depurato di debiti e mutui: qui siamo a quota 8.600 miliardi, corrispondenti a circa 350 mila euro a famiglia. Come è noto ci sono popoli, anche più evoluti di noi, che si indebitano più di quanto possiedano. Tipicamente gli anglosassoni, dove esiste la pratica di ipotecare la casa per ottenere prestiti destinati al consumo. Non è il nostro caso. Il che magari può essere un handicap, quando fa girare poco l'economia. Ma diventa una base solida in momenti di burrasca come negli ultimi tre anni. E difatti la percentuale di famiglie con «ricchezza negativa», cioè con più debiti che patrimonio, è del 3,2: uno dei minimi mondiali. È facile prevedere che l'attenzione dei mass media si concentrerà oggi su un altro dato: la distribuzione della ricchezza. Il 45 per cento è in mano al 10 per cento delle famiglie più abbienti, almeno secondo il fisco. Specularmente, le famiglie più povere detengono solo il 10 per cento della ricchezza. E' un chiaro indice di diseguaglianza, ma attenzione: 940 miliardi di euro in mano alla fascia cosiddetta di povertà non è comunque un'entità trascurabile. Non lo è, a maggior ragione, se si tiene conto del sommerso, sia come reddito che come patrimonio. Sarà anche per questo che pochi muoiono davvero di fame? Del resto la stessa Bankitalia definisce «contenuto», rispetto anche ai paesi più avanzati, il livello di diseguaglianza delle famiglie italiane. E chiama in causa un ulteriore parametro: il rapporto tra ricchezza e reddito. Come è noto sul secondo indicatore non siamo messi benissimo: in Italia non si guadagna bene, almeno ufficialmente. Abbiamo comunque un rapporto di ricchezza in rapporto al reddito di 7,8 volte, più di Francia (7,5), Gran Bretagna (7,7), Giappone (7) e significativamente superiore agli Usa (4,8). Come dire: introiti e stipendi non saranno un gran che, lo sapevamo. Ma il patrimonio è molto. C'è evidentemente qualcosa che stride in tutto ciò, perché non si comprano case né titoli senza redditi che lo consentano: la spiegazione più plausibile sta, appunto, nel grande sommerso che costituisce una piaga dell'Italia, e al tempo stesso un salvagente. Resta il fatto che siamo un paese comunque ricco. E che, a dispetto di molti facili cliché, magari ostenta, ma in fondo non spreca.