L'Italia che lavora: era ora
Era ora. Se qualcuno pensava di ridurre Sergio Marchionne al silenzio, costringerlo in difesa e continuare con il solito andazzo del «tutto va bene madama la marchesa», può accomodarsi ai giardinetti e far scodinzolare i cani. Il numero uno della Fiat ieri al Meeting di Rimini ci ha regalato un discorso memorabile, un intervento che lascia il segno. Il «nuovo nemico pubblico» ha girato la chiave, acceso i fari, illuminato il tunnel e ne è uscito come un personaggio da antologia. Un uomo nato nello Stivale, forgiato all’estero, innamorato di questo Paese al punto da sopportare i fischi degli ingrati e le lezioni degli ignoranti. «Era ora», dice l’Italia che lavora. Ho seguito il suo intervento con grande attenzione e devo confessare di averlo ammirato. Sapevo che l’amministratore delegato della Fiat avrebbe dato una risposta degna della sua fama. Marchionne ha scartavetrato la verità più dura in faccia ai suoi critici un tanto al chilo, ai manutengoli di regime, una realtà difficile da accettare: la Fiat è cambiata, io sono un manager che se ne infischia dei giochi politici, non sono ricattabile, non mi interessa fare carriera nel Palazzo, sono orgoglioso di esser nato in Italia, ma il mio orizzonte è il mondo e nessuno mi fermerà. Quando Marchionne ha raccontato la sua vicenda personale, la difficoltà di andare all’estero, incontrare una nuova cultura, una nuova lingua e doversi comunque fare strada con tutte le proprie forze per non soccombere, ho capito che quest’uomo è sorretto da una tenacia, da una consapevolezza di se stesso, da una conoscenza diretta del sacrificio che lo rende infrangibile. La Fiat ha un leader, un condottiero e il discorso di Marchionne ieri è stato quello di un capo vero, una guida con le idee chiare, un comandante che ai suoi soldati trasmette ordini chiari e non incertezze. Il suo discorso è ancora più forte e credibile perché Marchionne appunto non ha alcun interesse per la politica, non ama il jet-set, non gli interessa apparire per forza. A differenza di quel che abbiamo letto in quest’estate italiana, non parla dalla spiaggia o dallo yacht impartendo lezioni al volgo disperso che nome non ha. Parla in maniera schietta e brutale quando ha delle cose da dire - fatto rarissimo in un Paese ciarliero - e quanto dice solitamente suscita lo sconcertato «ooooohhhh...» dei parrucconi e tartufoni di regime che s’accompagna a un consolatorio e cinico: «Tanto prima o poi anche lui ci sbatterà il muso...». Finora il grugno se lo sono dovuto rifare i suoi avversari che, uno a uno, hanno cercato di impedire alla Fiat di crescere, di essere all’avanguardia e poter dire che sullo scenario globale noi ci siamo. Non ho mai amato la vecchia Fiat, ma spero che questa impresa abbia successo. È un’opportunità per tutti. Un esempio da non spianare con il caterpillar dell’autolesionismo all’italiana. Marchionne rappresenta il buon compatriota che parte per l’estero da bambino, soffre di solitudine e piange in silenzio, ha un sogno difficile da realizzare e poi improvvisamente scopre l’America. Questo vastissimo continente lo ha vaccinato contro la corruzione dei costumi. Il titanio anglosassone è addolcito dallo spirito Mediterraneo che in lui riemerge quando meno te l’aspetti. Marchionne è un italiano atipico e nello stesso tempo un americano fuori dagli schemi. Quando parla mischia le parole, il suo accento tradisce l’esperienza sotto la bandiera a stelle e strisce, spizzica il discorso, beve acqua, tossisce. Sotto la pelle dura del grizzly c’è un uomo che si emoziona. Non un freddo calcolatore, non un cinico tagliatore di teste. Regole e cuore. Hegel e Machiavelli. Filosofia e esercizio del potere. Analisi e azione. Mentre parlava, tutto lo scenario politico che stiamo vivendo in questi giorni è improvvisamente tramontato, sparito, oscurato. Le piccinerie del Palazzo si sono eclissate di fronte a un uomo che, in fondo, non ci stava raccontando solo il disegno di un’azienda, la sua missione, ma la propria vita interiore, i suoi sogni. I ragazzi del Meeting ne usciranno certamente arricchiti. Non so quanto invece il potere ne trarrà lezione. Ho come l’impressione che il Paese sia accartocciato su se stesso, incapace di reagire e in grado soltanto di far gracchiare il solito ritornello dello status quo. Un grammofono cigolante e polveroso che fa girare la sua puntina su un disco graffiato, quasi urticante per l’anima. Il galateo istituzionale ha evitato un tamponamento tra la Fiat e il Quirinale, ma le parole di Marchionne, al di là della diplomazia, sono inequivocabili: è ora di cambiare passo, di aggiornare non solo il vocabolario, ma anche le idee. Vale per tutti, nessuno può sentirsi immune da questo processo. Il mondo di Marchionne non è quello della polverosa accademia o del Palazzo che va ancora con la clessidra e pensa di poter piegare la realtà alle proprie decisioni. Il pianeta di Marchionne è quello sempre connesso delle multinazionali che pensano negli Stati Uniti, in Cina, in Giappone e agiscono dove più conviene. Fiat non ha più il compito di fare da ammortizzatore sociale per lo Stato e nonostante questo ha scelto di restare in un Paese poco profittevole e con condizioni difficili come l’Italia. Questo dimostra che Marchionne non è un liquidatore, ma uno stratega. Ha capito che Fiat ha radici italiane e alla propria storia bisogna dar ascolto, assecondarla, guidarla, usarla per far rinascere l’identità e l’orgoglio di appartenere a un Paese dove il genio non manca ma s’accompagna troppo spesso al male. Marchionne è un uomo di parola e cercherà di trovare una soluzione all’impasse sullo stabilimento di Melfi, ma ho il timore che possa subire una cocente delusione dalla sua Italia. Rilegga tutte le sere «Il Principe». Si prepari alla guerra, solo così avrà la pace.