Il nuovo nemico Marchiusconi
Ho davanti a me un libro di Leo Longanesi, s’intitola «Ci salveranno le vecchie zie?». Ne scorro le pagine in cerca di illuminazione o solo di cinica consolazione per i destini di quella «cosa che va», l’Italia. Longanesi scriveva che la cosa va, «ma è una "cosa" misteriosa, una misteriosa cosa "che va", e non se ne sa il perché». Comincio a pensare che quella cosa in realtà non va più e ci sono elementi solidi per dire che se va, va peggio. Da sedici anni il Paese è diviso in berlusconiani e antiberlusconiani, canalecinquisti e annozeristi. Il Cavaliere è il nemico pubblico e ora Sergio Marchionne è il bersaglio aggiunto, così siamo al «Marchiusconi». Il numero uno della Fiat, in poche settimane, è diventato l’ostacolo da abbattere, il prototipo dell’avversario al quale non bisogna risparmiare nulla. Sedici anni fa Berlusconi impedì all’ex Pci di governare il Paese grazie a una finta rivoluzione giudiziaria, oggi Marchionne è l’icona di un mutamento epocale nel sistema di potere del Paese. Quando l’amministratore delegato della Fiat prova a far valere concetti come merito, legge, ordine, responsabilità, concorrenza e mercato, si mette automaticamente fuori da mezzo secolo di storia italiana, diventa un equivoco per cui l’establishment - di cui ha fatto parte alla grande anche la «vecchia» Fiat - si guarda intorno sorpreso. Ecco perché dalla Presidenza della Repubblica sono arrivate sollecitazioni a tornare indietro sulla vicenda degli operai Fiom licenziati, ecco perché la Conferenza episcopale italiana s’è schierata contro l’uomo del Lingotto. Marchionne non ha sbagliato niente, ma ha saggiato con mano - e questa è davvero la prima volta - quanto sia solido il potere della conservazione in Italia, quanto regole elementari negli altri Paesi siano poco più che carta straccia dalle nostre parti. Intendiamoci, Giorgio Napolitano non si è inventato un «nemico», semplicemente la visione del mondo - e delle relazioni industriali - di Marchionne cozza contro un mondo consolidato, una liturgia istituzionale per cui le fabbriche in Italia non sono guidate dai manager dell’impresa, ma da una sorta di cogoverno che vede i sindacati di fatto manovrare l’impresa. Quando Raffaele Bonanni - uomo di buon senso e leader della Cisl - chiede a Marchionne di fare un passo avanti verso la compartecipazione dei lavoratori, individua due problemi: il primo riguarda la sopravvivenza del sindacato a questa rivoluzione; il secondo è il tentativo di disinnescare la Cgil e la Fiom, vera mina vagante per tutto il settore metalmeccanico che non si riduce alla Fiat. Ma neppure la proposta di Bonanni in questo scenario ha un senso compiuto perché il sindacato in cambio può offrire - e soprattutto non vuole offrire - ben poco. In un mondo dove i produttori del settore automobilistico si stanno concentrando e riducendo a pochi campioni globali (la stessa cosa sta avvenendo nell’aviazione civile), il sindacato italiano dovrebbe fare un passo decisivo verso due parole chiave: qualità e produttività. Ma in entrambi i casi queste parole vengono sempre dopo quella dei «diritti» che ad arte viene separata da quella dei «doveri». La manifattura italiana è ancora molto apprezzata, ma se ci voltiamo indietro, non possiamo non vedere che nel campo automobilistico dobbiamo recuperare il terreno perduto. Le auto italiane in passato erano le più belle, eleganti, curate e ambite del mercato. Poi nelle fabbriche s’è rotto qualcosa, l’orgoglio di essere fabbrica italiana (ogni riferimento al progetto Marchionne è puramente voluto) è andato perduto. Fa impressione vedere Obama dire «thank you Sergio» e le forze conservatrici ripetere in coro «vade retro Sergio». Brutto segno. È invece giunta l’ora di riprendersi ciò che è nostro e fa parte del dna della nazione. Ma per farlo occorrono consapevolezza, voglia di sudare, studiare, sacrificarsi e rendersi conto che niente è come prima e nulla è garantito. Mettere Marchionne nel mirino, puntare l’indice su di lui, fare della sua persona un nuovo nemico è un errore imperdonabile. Lasciare che il destino della principale azienda italiana, il nostro marchio nel mondo, sia deciso da un paio di magistrati che non hanno mai visto una catena di montaggio, è un errore gravissimo di cui potremmo pentirci amaramente. Non vorrei che questo fosse l’inizio non solo di un autunno caldo, ma di qualcosa di più rovente e sinistro. Gli anni Settanta furono l’inizio del terrorismo e la fabbrica e le università ne furono l’incubatore. Ho come l’impressione che la storia si stia ripetendo. E veniamo alla posizione assunta dai vescovi italiani. La Chiesa da sempre fa il suo mestiere, ma i vescovi non sono infallibili come il Papa. Scambiare la difesa del posto di lavoro di tre operai della Fiom come missione pastorale è un errore. I preti sono pastori e quando guidano il gregge fanno di tutto per recuperare la pecorella smarrita, ma senza mettere a rischio l’intero gregge e soprattutto senza perdere il pascolo che nutre quel gregge. Sarebbe imperdonabile. Ricordatevi, cari ministri della Chiesa, della parabola di Gesù sui talenti. È premiato chi li fa fruttare, non chi li disperde. Marchionne ha talento e ne semina per tutti. Non è lui il nuovo nemico pubblico.