Marchionne sfida il sindacato
Non se ne abbia a male il pirotecnico Giulio Tremonti. Ma, di fronte alla spallata di Sergio Mrchionne al contratto nazionale dei metalmeccanici, le sue proposte di riforma della Costituzione in materia economica assomigliano al soffio di una cerbottana di fronte al botto di un cannone. Ricapitoliamo. L'ad della Fiat ha dato vita, dieci giorni dopo la sigla dell'accordo con Cisl ed Uil, ad una nuova società, controllata dal gruppo torinese, che gestirà la fabbrica di Pomigliano secondo le regole fissate dall'intesa. Ma questo, hanno rilevato i legali del gruppo, non basta a metterci al riparo dall'intervento dei pretori, più o meno d'assalto. Non è infatti difficile prevedere che, con un richiamo esplicito al contratto nazionale, fioccheranno i ricorsi Fiom, a Pomigliano e non solo. Perché, alla luce della giurisprudenza prevalente, è probabile che i licenziamenti decretati dall'impresa nelle ultime settimane contro le agitazioni più o meno selvagge negli impianti del gruppo, verranno cancellati dalla magistratura. Per molto meno i campioni della politica nazionale, in materia economica ma non solo, hanno tirato i remi in barca. Marchionne no. La Fiat, ha fatto sapere ai suoi collaboratori, può anche perdere una causa. Ma non può accettare che il caos torni a regnare in fabbrica. E a proposito del contratto nazionale, se ci è impiccio, disdettiamolo. Cosa che farà giovedì mattina all'Unione Industriale di Torino, un luogo sacro per l'associazionismo degli industriali, che proprio qui, un secolo fa, diedero vita alla Confindustria. Facile che l'ad in maglioncino non ci abbia fatto nemmeno caso, proiettato com'è verso un futuro in cui delle due l'una: o l'Italia si mette al passo degli altri, in quanto a produttività, oppure rinuncia all'auto, senza che si vedano troppe alternative. Gli industriali delle piccole e medie imprese, quelli che pagano le più alte ritenute fiscali e previdenziali del pianeta, applaudono. Ne avranno a male, invece, i burocrati dei ministeri (e della Confindustria), per non parlar dei sindacati che rischiano di vedersi sottratta la famigerata ritenuta dello 0,50 per cento sulla busta paga che serve un po' a mille usi, ivi compresi i concerti a piazza San Lorenzo. Ma questi rituali, ai tempi dell'economia globale, non servono a produrre più macchine a minor prezzo, l'unico obiettivo cui mira Marchionne. Certo, l'amministratore delegato della Fiat sfrutta con un certo cinismo l'enorme libertà di azione che gli è concessa dall'assenza di freni della politica, del resto orfana dei soliti strumenti di pressione. Ma proviamo a rovesciare il discorso: chi ha dato una mano a Fiat durante il braccio di ferro per Pomigliano? Possibile che in mezzo agli scambi di bazooka per il controllo del pdl in quel di Napoli, non si sia trovato il tempo per sostenere Fabbrica Italia, progetto da 700 milioni che promette di rappresentare il 17 per cento del pil dell'intera provincia? Possibile che Barack Obama trovi il tempo per visitare Jefferson North, l'azienda Chrysler in cui 1.100 nuovi assunti hanno accettato di lavorare a 14 dollari l'ora (la metà della paga dei vecchi) pur di non bivaccare in mezzo alle strade di Detroit, il regno dei rappers alla Eminem e della miseria mentre i vari padroni delle tessere della Campania hanno avuto altro da fre che sorcarsi le mani in quel di Pomigliano? Certo, Marchionne sogna di avere come interlocutore un sindacato all'americana, la Uaw, che si è trovata in mano il 65 per cento di Chrysler, con un valore vicino allo zero, ma si è affidata all'ad italo-americano con un piano ben preciso: riportare la società, una volta in utile, in Borsa. A quel punto la Uaw venderà le azioni e con il ricavato finanzierà i fondi che dovranno garantire la pensione a decine di migliaia di lavoratori e alle loro famiglie. Un'impresa da far tremare i polsi, ma possibile se, come accade a Detroit, il sindacato si impegna a rispettare e a far rispettare le intese. E' possibile una cosa del genere in Italia? Marchionne pensa di sì. Ma, se così non fosse, per lui e probabilmente pure per la Fiat, non sarebbe un dramma. Il mondo, Europa compresa, è piena di governi pronti ad offrire ponti d'oro per un investimento che crei posti di lavoro. Il dramma sarebbe tutto nostro. A meno che non si pensi sul serio che il futuro possa fare a meno dell'industria.